giovedì 11 maggio 2017





LIBERO
Di
Araldi M. Beatrice

L’ultima cosa che il ragazzo ebbe coscienza di fare fu di aprire gli occhi a fatica. Una luna ancora più fredda della neve su cui giaceva lo guardava fra i rami spogli degli alberi, apparendo e scomparendo, velata da poche, rade nubi. Non sentiva freddo, il ragazzo, seminudo fra un affiorare di radici, rami spezzati, su un letto candido di ghiaccio. Che rabbia… Dio che rabbia! Richiuse gli occhi. Si alzò in piedi, stupendosi di non sentire fatica, e risalì la scarpata fino alla strada. No, non conosceva affatto quel posto, non sapeva che fare, dove andare. Tornò giù, a guardare un corpo sdraiato nella neve, un corpo giovane ed immobile, gli occhi chiusi, la luna a baciargli le guance nude e glabre, le labbra pallide ed ancora sentì rabbia, ma più affievolita. La luna tornò altre volte, e ancora, sempre più sottile, fino a scomparire, poi riapparire e farsi di nuovo grande e tonda, ad illuminare il bosco. Il ragazzo non si allontanava più di tanto: restava legato ed affascinato dall’orrore che ogni ora gli mutava dinnanzi agli occhi, il corpo, il suo corpo, che lentamente si trasformava. Non voleva credere a ciò che aveva davanti, travolto da un turbine di dolore, angoscia, disgusto, disperazione. Perché? Doveva fare ancora mille cose… perché? A volte preso dallo scoramento, piangeva. Cosa poteva fare? Cosa doveva fare? Non conosceva quel posto, quei boschi, quel freddo. Per un attimo non avrebbe saputo dire ne quando ne come, aveva avuto la certezza che qualcuno, non sapeva chi o dove, aveva saputo di lui, e di quanto era successo, poi la sensazione era scomparsa. Che qualcuno lo aiutasse, lo portasse via di lì, per l’amor di Dio! Quanto tempo era passato non avrebbe saputo dirlo, quando un uomo scese il pendio guardando attorno. Non l’aveva ancora visto: era spostato rispetto a lui, rispetto allo scempio che era divenuto il suo corpo. Poi lo vide: l’uomo si bloccò per alcuni secondi, fece un paio di passi verso di lui, il respiro gli si mozzò, arricciò il naso e risalì il pendio chiamando ad alta voce qualcuno. Il ragazzo ebbe paura di dover restare solo di nuovo, di dover passare un’altra notte in quel bosco… ma no, l’uomo tornava, insieme a una altro. Poi arrivarono Carabinieri, altra gente. A notte, finalmente, caricarono il corpo su di un’ambulanza o un furgone, dopo che un tipo era sceso a guardarlo. Il ragazzo percepì, stupendosi, il sincero dispiacere che sentiva provenire da alcuni di quegli uomini, e da molti di loro sentiva pronunciare il suo nome. Il telegiornale locale l’aveva data come prima notizia, quel triste ritrovamento. Un tuffo al cuore. E’ lui… Si è lui. Il cronista aveva parlato di corpo, senza far nomi… anche se era improbabile che si trattasse di qualcun altro – non improbabile, impossibile. E’ lui: scomparso da oltre un mese, segnalato altrove, tutto faceva pensare che si fosse allontanato, che se ne fosse andato. Si, proprio andato, con la A maiuscola.
Lei, nella sua casa, lei, viva, lo sentiva.
Rabbia! Dio che rabbia! Rabbia, dolore, angoscia e un’enorme frustrazione. Dio, Dio, non doveva andare  così! Non doveva finire così! No! NO! NOOO! Non poteva essere, no, doveva fare tante cose, cento, mille, aveva trovato casa, doveva tornare al lavoro, non poteva andare così, no!
Lei lo sentiva, sbalordita. Stravolta. Le rovesciò addosso tutta la sua rabbia, tutta la sua disperazione e lei ricevette tutto quanto a braccia aperte, a cuore aperto e se avesse potuto, lui, offrirle quel resto di sé che in fondo lo aveva fregato, lei avrebbe accolto anche quello, perché anche il suo desiderio sentiva. Il suo essere così carnale, così legato alla vita. A lei pareva insolito questo mescolio di intensa vitalità, un fuoco che si espandeva,  ed altrettanto intensa dolcezza, questa unione/scissione fra un’energia forte, golosa, imperiosa ed una dolcezza zuccherina, affettuosa, tenerissima.
Il dolore. Dio, il dolore! Enorme, osceno, violento. Non sapeva in che misura fosse suo, o di lui… suo, come se avesse perduto il suo uomo, come se fosse stato davvero suo, come se l’avesse conosciuto, o di lui, che aveva perduto tutto e quando se ne era reso conto era troppo tardi. Lui, che le stava accanto e la riempiva di gioia, di tenerezza. Lui che adorava lei e la sua bambina, una volta fino quasi al punto di divenire tangibile, visibile agli occhi, mentre guardava deliziato la piccola. Un ginocchio a terra, le braccia sull’altro, piegato.
- E’ proprio una bella bambina – aveva detto. Lui, che almeno una notte le era apparso al fianco e lei l’aveva scambiato per suo marito. Lui, che insieme a quell’incredibile, sconvolgente dolore, le stava dando amore puro, totale, al punto di rovesciarle l’esistenza.
Lui, che ad un certo punto se ne andò, perché non ppoteva fare altro che andarsene in quel momento, gridando, piangendo che non voleva farle del male.
E lei che si ritrovò a gridare dentro, e a piangere, lo lasciò andare perché gli voleva molto, molto bene. Tornò. Oh, se tornò. Più distaccato, più misurato, ma sempre molto intenso. Affettuoso e dolce come era, non più terribile, e le raccontò tante cose di sé, anche di quella sera, ma non di quegli ultimi momenti, una notte di gennaio nei boschi. No, non ne voleva parlare. Lo smarrimento era ancora forte, il dolore altrettanto e lei li sentiva entrambi.
Lo aiutò a camminare nell’Oltre? Chi lo sa. A detta di lui sì, ma lei sarebbe rimasta piena di dubbi fino al giorno in cui, finalmente, lo avrebbe potuto abbracciare, Luce come lui già era. Ma ogni giorno parte dei suoi pensieri era rivolta a lui, insieme ad una domanda muta che non avrebbe forse mai avuto risposta: “Perché?” Perché sentirlo così, come se fosse stato la sua metà, dato che da vivo le era stato un perfetto sconosciuto?
IN UN ALTRO TEMPO
Non manca molto a quel giorno di gennaio.
Quando vidi la tua foto sul giornale mi sovvennero tremila pensieri. Che somigliavi ad una mia vecchia zia. Che avevi un’aria pacioccona. Che dovevi essere una pasta. Che eri anche carino, toh. Che eri belloccio, cosa che di quella mia vecchia zia non si può dire.
Che vivo non eri più.
Anzi, te ne stavi là tra i boschi, i “miei” boschi, a marire. Lentamente, per carità, ma il freddo conserva, è noto. Però c’eri. E non fui l’unica ad avere quella sensazione. Poi invece sembrò che fossi in giro per l’Italia, un po’ qui un po’ là, verso fine mese, e mi sarebbe piaciuto crederci… ma insisteva il dubbio, no , la certezza che tu fossi ancora là tra gli alberi delle mie colline, pallido cadavere decomposto. Poco, che il freddo conserva.
Ogni sera guardavo dalla finestra, quando calava il buio, e mandavo come dire… “le antenne” in esplorazione? Mi tornava una risposta chiara “E’ ancora là”. Là, dove poi ti trovarono. Sì, proprio come se avessi visto dov’eri.
Assurdo, no?
Aspettavo che ti ritrovassero. Quando è successo… non so, E’ crollato qualcosa? E’ scoppiato qualcosa? Quella sera, ah, la ricordo bene sai quella sera del 20 febbraio. Saputo dalla tv, ancora guardavo dalla finestra, e proprio nella direzione giusta. Sentivo che c’eri ancora, poi , a tarda sera, credo ti abbiano portato via.
Una parte di me si aggrappava alla stupida speranza che non fosse tuo, quel cadavere… ma a parte l’altissima improbabilità, quel crollo, quello scoppio non facevano che sottolineare l’ovvio. Eri proprio tu.
E dopo un paio di giorni, lo smarrimento crescente, quando anche tua madre ti vide così ridotto e ti riconobbe, sei arrivato. Perché da me, non lo so. Non so se tu sia andato a cercare aiuto a casa di altri, già ombra come eri, un aiuto che non ti hanno potuto dare, per uscire da quel Purgatorio. E non è stata punizione sufficiente il restare per un mese e mezzo a guardare se stessi marcire? Vedere tutte le speranze, le idee, i desideri di un giovane uomo nemmeno trentenne disfarsi in un bosco? Non è stata una mostruosità pari al vederti pian piano disfarti e non volerci e non poterci credere? Credo che tu sia morto due volte, ed è stata tremenda la seconda quanto la prima. Perché ad un certo punto hai capito che non potevi tornare indietro, lassù nel bosco, ma pure una parte di te non ci credeva.
E’ stato quando tua madre, e tuo fratello hanno tolto qualsiasi speranza a loro stessi, agli altri tuoi di casa, a te e a me, che sei arrivato da me, qui, inopportuno e benvenuto ospite. Quasi come se si fosse spezzata un’ultima catena, quella che ti teneva legato alla Terra, al corpo, alla polvere, alla neve.
Comprendere di essere morto dev’essere stato ben più che terribile, visto che non ne avevi l’intenzione. Ed è stato questo che mi hai scaraventato addosso per mesi, la parte buia di te, e se pure me ne sono resa conto a te non rimprovero nulla. Anzi, se sono stata tramite e filtro e parafulmine del tuo dolore, e così, forse, hai accettato ciò che era ormai impossibile cambiare, è stato benvenuto anche il tuo mostruoso dolore, la tua rabbia. Che cosa tu abbia fatto dai primi giorni di gennaio al 20 febbraio non lo so, anche se sospetto che tu sia rimasto accanto a te, qui non c’eri.
C’era il pensiero di te, non tu, te l’ho detto, sei arrivato quando ormai avevi capito… è stato per questo che sei venuto? Perché io ti aiutassi nel dolore, in quel mare di sofferenza, e aiutarti ad aiutare i tuoi, dopo qualche giorno, quando hanno sepolto i tuoi resti?
Sepolto i tuoi resti. Fa sorridere tristemente anche te, adesso. Guarda lì, uno che voleva essere normalmente felice… che fine, povero.
Adesso è dicembre. Nevica di nuovo. Un tempo mi piaceva, la neve, dallo scorso gennaio non più. Ieri sera sei venuto a trovarmi, indossavi un doppiopetto color grigio perla, un abito da grandi occasioni, persino lievemente luccicante. Eri belloccio e avevi un’aria orgogliosa e fiera, diverso dal solito, quasi impacciato in quel bel vestito.
- Vado ad una festa. La mia festa. –
Chissà che festa è, mi chiedo, ho qualche sospetto. Sei tornato a notte fonda, io ero ancora sveglia. E mi hai sussurrato:
- La mia festa. Ed è grazie a te che sono a questa festa, grazie a te. Sei meravigliosa, sei stata meravigliosa amore. Grazie. –
E’ stata una delle cose più struggenti e stupende che mi siano capitate, non ci ho voluto nemmeno credere, pensando che fosse, che so, una mia fantasia. Eppure, mi risuona ancora chiarissimo all’orecchio della mente, come se me lo sussurrassi ancora.
- Grazie!-
Non ti ho mai più rivisto, se non per pochi istanti, molto tempo dopo. Eri felice. Sorridevi, sereno, finalmente sereno, guardandomi. Finalmente libero.


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