UNA
AMICIZIA IMPROBABILE
DI
Nicole Lanzi
Iniziai
a volteggiare, forse per tutta quella luce.
Nella confusione sbattei contro un albero, Quando riuscii ad alzarmi,
seppur dolorante, camminai fino a che non vidi una pozza d'acqua e decisi di
fermarmi per berne un sorso. Ma quando
mi riflettei sulla superficie scoprii con orrore di essere un gatto. Il
primo istinto fu quello di gridare ma quando ci provai mi uscì uno strano verso
a metà tra un miagolio e un gemito. Mi alzai di scatto ma persi l'equilibrio e
caddi nella pozza con un sonoro "splash!". Sentivo l'acqua fredda che
mi inzuppava il capo. I brividi mi scuotevano e mi facevano tremare. La
confusione che avevo in testa sembrava un tornado. Non riuscivo a focalizzare
nemmeno un pensiero chiaro e nitido. Rimasi seduto lì a lungo. Fino a quando
non vidi un'altra luce accecante, come quella di prima e sentii uno stridio di
gomme. Poi di nuovo il buio. Piano piano il caos si calmò. Iniziai a guardarmi
intorno. C'erano delle case, molte case enormi. E delle ruote che passavano
ogni tanto e che capii appartenevano a macchine, di cui però riuscivo a vedere
solo la parte inferiore. Mi sentivo minuscolo in mezzo a tutto quell'enorme che
fino a qualche ora fa era per me normale. Chiusi gli occhi e aspettai di svegliarmi,
si sentire il rumore rassicurante della mia sveglia. Feci pressione e quelli
iniziarono a bruciarmi ma continuai ad aspettare. Perchè questo non poteva che
essere un sogno, uno di quei sogni strani e senza senso che le persone fanno
quando sono stressate. Eppure qualche minuto dopo, quando li riaprii, tutto era
rimasto uguale. La sveglia non aveva suonato. Non potevo però perdermi ancora
nei miei pensieri e rimanere in mezzo alla strada. Riprovai ad alzarmi, con cautela stavolta e a
predere coscienza del peso del mio corpo. Mi sentivo leggerissimo, ora capivo
come si dovevano sentire gli astronauti quando orbitavano nello spazio. Quasi
senza pensarci drizzai il collo e mi sollevai sulle zampe posteriori. Tuttavia
dopo soli pochi istanti capii che non era stata una brillante idea. Planando a
terra ebbi quantomeno il buonsenso di mettere avanti gli arti che attutirono il
colpo evitandomi uno spiacevole dolore al muso. Rimasi qualche istante in
quella posizione, cercando di abituarmici. In lontananza scorsi un movimento e
indietreggiai spaventato come avrei fatto di solito ma, sorprendentemente una
parte di me era anche molto curiosa e quest'ultima ebbe la meglio. Così
camminai un po' malfermo sulle mie nuove quattro zampe e raggiunsi un
vicoletto. Lì finalmente potei osservare meglio quello che all'inizio mi aveva
spaventato. Era un topolino. Un piccolo topolino grigiastro che rabbrividiva
sotto un cassonetto. Quando ero umano avevo sempre avuto paura dei topi, ma
adesso, non so nemmeno perchè, quel piccolino mi faceva solo una gran
tenerezza. Mi chiesi se anche lui era stato un'altra cosa prima di diventare un
topo. Mi chiesi se esistesse un modo per chiederglielo, per parlare insieme e
sperai. Cercai di incrociare le dita come facevo spesso prima, ma incontrai
resistenza e allora, per la prima volta, quasi sorrisi. Decisi che volevo
conoscerlo, magari sarebbe scappato, magari non mi avrebbe capito...Ma ero
solo, e non mi piaceva per niente, perciò quel piccolo topolino rappresentava
la mia unica via di fuga dalla solitudine. Mi avvicinai lentamente, l'eleganza
da poco acquisita aiutava molto. Cercai di emettere un verso, per avvisarlo del
mio arrivo senza spaventarlo, ma uscì uno sbuffo. Sentii uno squittio fievole.
Abbassai la testa, sperando che questo mi facesse sembrare meno terrificante ai
suoi minuscoli occhi. Seguii il suo odore fino a che il mio muso sbattè contro
il metallo del cassonetto. Mi abbassai un po flettendo le zampe e sbirciai
sotto. Il poverino si era raggomitolato in un angolino e tremava
incontrollatamente. Mi sdraiai completamente e appoggiai la testa a terra
chiudendo gli occhi. Concentrandomi riuscii a fare qualcosa che poteva
assomigliare a delle fusa. Dopo qualche minuto sentii il suo cuoricino battere
più lentamente e il suo tremolio si affievolì. Non so per quanto rimasi così ma
ad un certo punto udii un piccolo rumore che poteva sembrare una zampetta che
si muoveva esitante sull'asfalto. Dopo qualche secondo lo udii di nuovo. Il mio
forse nuovo amico si stava avvicinando. Sentii il suo naso annusarmi. Ero
sicuro che avesse ancora una gran paura ma la sua curiosità prevaleva. Forse
non eravamo poi così diversi. Spostai il muso lentamente, timoroso di farlo
scappare e lo sfregai sulla sua morbida testa. Lui si bloccò come pietrificato
ma non appena capì che non volevo fargli del male si rilassò. Rimanemmo così
non so per quanto, purtroppo l'orologio da polso era rimasto nella mia vecchia
vita. Riuscivo però a intuire che fosse notte fonda dagli schiamazzi che erano
andati scemando e le luci della città ormai spente. Ad un certo punto lui scattò, si scostò e
camminò verso il retro del cassonetto. Io rimasi fermo, non sapenso cosa fosse
successo. Avevo forse mosso una zampa e gli avevo fatto male? Volevo provare
almeno a capire, a rimediare, così lo seguii. Lo trovai appollaiato su di un
vecchio cuscino rattoppato, nascosto al resto del mondo. Lui mosse la testolina
come indicandolo. Sembrava volesse invitarmi. Cautamente mossi qualche passo
verso di lui. Vedendo che non scappava andai anch'io sul cuscino e mi sdraiai.
Ero abituato ai letti più morbidi, alle coperte più soffici e alle sete più
pregiate, ma in quel momento quel cuscino rattoppato era l'oggetto che più
preferivo nell'universo. La stanchezza piano piano mi pervase. Gli occhi, non
ricordo quando, si chiusero da soli. L'ultima cosa che sentii prima di cadere
tra le braccia di Morfeo, fu una piccola pressione sulla zampa e un corpicino
che mi si raggomitolava contro.
Mi svegliai
all'improvviso, forse a causa di qualche rumore. Quando aprii gli occhi ebbi un
senso di smarrimento. Mi sentivo come quando in terza media avevo perso una
scommessa e avevo dovuto tenere gli occhiali del mio compagno di banco per
tutta la lezione. Era come avere una fotocamera al posto delle pupille che
focallizzava ogni cosa su cui puntavo lo sguardo. Le antenne sui tetti delle
case erano nitidissime come anche le sagome dei mattoni su di esse. Mi accorsi
solo dopo poco che c'era ancora buio. La notte pervadeva ancora il cielo,
illuminandolo con tante piccole meraviglie e questo rendeva tutto ancora
più surreale. Mi alzai, quasi in trance,
tenendo sempre gli occhi verso l'alto. C'erano un silenzio, una pace, una
tranquillità così emozionanti che mi facevano quasi tremare. Questo però portò
il mio corpo a risvegliarsi e a
trasmettermi un segnale piuttosto chiaro. Mi incamminai verso la città,
deciso a trovare un bagno chimico. Solo dopo qualche metro, mi resi conto di
non poterlo usare. Chi aveva mai visto un gatto andare in bagno? Escludendo
Sfigatto nel film con De Niro... Mi acquattai perciò dietro una scatola
abbandonata pensando a come procedere. Cosa dovevo fare? Dovevo piegarmi come
nei bagni pubblici o rimanere in piedi. Cercai di fare mente locale su tutte le
scene di gatti che avevo visto e provai alla fine, ad alzare una zampa e
togliermi il pensiero. Ora mi sentivo
molto meglio ma era quasi vergognoso aver fatto tanta fatica solo per un po di
pipì. Ora, nonostante sentissi, non so perchè, il bisogno di curiosare in giro,
volevo solo tornare a dormire, così con delicatezza mi rimisi sul cuscino
accanto al mio amico e mi riappisolai.
-Vuoi una tazza
di te, caro?-disse mia nonna adagiando sul tavolo un vassoio di
pasticcini.
-
No, grazie . Questa sera ho una cena con i colleghi e non voglio rovinarmi
l'appetito.- le risposi per quella che credevo ormai fosse la quinta volta. Ma
d'altronde, la nonna era fatta così, ogni volta che andavo là aveva sempre
pronti per me tanti stuzzichini che si impegnava per farmi sentire provando a
convincermi di essere “troppo magro”. Il profumino di crema era però troppo
invitante e non appena si alzò per prepararsi altro tè, con un movimento
fulmineo mi infilai una di quelle delizie in bocca, assaporandola velocemente
per inghiottire prima che tornasse. Una briciola era rimasta attaccata al
labbro superiore così ci passai la lingua in un ultimo istante di golosità...
Quando aprii
gli occhi per la seconda volta, il sole aveva già salutato l'oriente. Prima
avevo avuto molte volte l'occazione di studiarlo ed ora, a pensarci bene, era
straordinario come una palla infuocata di idrogeno ed elio, fosse sospesa al
centro dell'universo come una sorta di faro per le navi all'orizzonte. Ma avevo
sprecato le mie occasioni e ora era un po' tardi. Non penso che una
bibliotecaria sarebbe stata molto propensa a dar retta ad un gatto che vuole
studiare astronomia. Comunque, per quanto le mie conoscenze sull'argomento
fossero molto scarse, dalla posizione di quell'enorme stella supposi che fosse
circa metà mattina. Il mio nuovo amico era ancora nel mondo dei sogni e sperai
stesse cavalcando un'unicorno o bevendo una tazza di cioccolata calda davanti
ad un bel camino acceso. Il pensiero allora mi corse subito al cibo, forse
anche a causa del sogno e mi ricordai di non aver mangiato nulla dall'inizio
della mia piccola avventura. Così mi alzai svogliatamente e mi stiracchiai. Non
avevo mai capito perchè i gatti si stiracchiassero ogni singola volta che si
alzavano, ma ora sì. Tutte le ossa del mio corpo si erano accostate nel
rannicchiarmi e ora le sentivo come se fossero attaccate le une alle altre con
la colla a presa rapida. Dopo qualche scricchiolio inquietante potei finalmente
iniziare la mia perlustrazione. Non avevo la minima intenzione di mangiare la
spazzatura o almeno non subito. Appena uscito dal vicolo svoltai a destra
seguendo la scia di pane tostato e bacon che pervadeva l'aria. Questa mi portò
fino ad un bar. Uno di quei posti dove tutti vanno alla mattina per mangiarsi
una calda colazione che dà loro l'impressione di un pasto fatto in casa dalla
mamma. Mi intrufolai dalla porta socchiusa e corsi in un'angolino per non farmi
notare. Il
pavimento era pulito, ma abbastanza ruvido da permettermi di non scivolare. Mi
accostai al muro e abbassai la coda cercando di mimetizzarmi con la striscia
nera dell'alto battiscopa. Non sentii nessun urlo quindi supposi di essermela
cavata abbastanza bene. Strisciai più avanti fino a quando non riuscii ad
arrivare vicino alla cassa o almeno a qualcosa che ci assomigliava. Di fianco
c'era uno sgabello in legno dall'aria pesante sul quale scorsi una cesta.
Poteva anche contenere dei volantini o delle uova finte, essendo ormai vicini a
Pasqua, ma era la mia unica speranza in quel momento e decisi di tentare. Mi
allungai verso l'alto, protendendo una zampa in avanti. La mia unghia si
incastrò in qualcosa di morbido ma allo stesso tempo croccante. Come una crosta
che racchiude un nucleo di cioccolato fuso. Avevo sempre pensato che i gatti
fossero come gli umani e che sentendosi tirare le unghie soffrissero ma, a
parte un lieve fastidio, non sentivo altro. Riuscii, non so come, a tirare a
terra quella che avevo ormai capito essere una pagnotta appena sfornata. Quando
potei finalmente vederla rimasi stupito. Era enorme! Ero solito mangiarne anche
tre per pranzo quando ero umano, ma ora una sola sembrava capace di saziarmi
per una settimana. Vi affondai i denti, assaporando il gusto della calda
mollica e ormai senza più fretta, m'incamminai verso l'uscita, con il pane a
precedermi. Non ci vedevo molto ma almeno se avessi sbattuto contro qualcosa ci
sarebbe stato lui ad attutire il colpo.
Prima di aver potuto fare due passi però sentii un bisbiglio:”Tata
guarda, c'è un gattino”. Subito non ci feci caso, ma quando andai a sbattere
contro due corte gambe paffutelle intuì di essere io il gatto a cui si
riferiva. Lentamente guardai in alto, verso due grandi occhi blu che,
spalancati, mi guardavano con meraviglia. Era una bambina. Una piccola, anche
se grande in confronto a me, bambina con le treccie e le gote rosse, alzate da
un sorriso che faceva sfoggio di due denti mancanti. Al suo fianco c'era una
ragazza, che non doveva avere più di vent'anni.
Non faceva però caso alla piccola, continuando a premere freneticamente
sul cellulare. Non sapevo cosa fare: dovevo scappare? Ma poi mi avrebbe seguito
o peggio, si sarebbe messa ad urlare. Dovevo restare? Non sapevo però quanto ci
avrebbero messo le altre persone per notarmi. Ma neppure stare qui a rimuginare
avrebbe portato a molto. Decisi perciò di tentare. Mossi la testa sulla sua
gamba, sfregandola e provai a fare le fusa, cercando di sembrare dolce e
innocuo. Lei si abbassò e mi accarezzò.
Sebbene non fosse molto delicata, come tutti i bambini d'altronde, era
rassicurante. Quasi piacevole. Aspettai
qualche secondo, godendomi la sensazione di leggerezza e poi sgusciai via, con
la pagnotta ancora in bocca. Ripercorsi la strada in senso contrario, ormai
indifferente a tutti i profumi delle colazioni altrui. Io avevo la mia ed era
più che sufficente. Tornai nel vicolo, non più così tetro alla luce del sole.
Il mio amico era sempre lì, sul cuscino, con gli occhi chiusi e il pancino che
si alzava ed abbassava lentamente, al ritmo del suo respiro. Misi la pagnotta
sotto il suo naso e attesi che si svegliasse. Dopo qualche secondo si mosse e
iniziò a tornare nel mondo reale. Appena mi vide tremò un attimo, come
istintivamente ma poi si ricordò della sera prima e si calmò. Solo allora si
accorse del grosso pezzo di pane che aveva davanti. Lo fissò per qualche istante, con uno
scintillio di stupore e gioia nello suardo, come chi vede una stella cadente
per la prima volta. Infine spostò gli occhietti su di me e in essi vidi il
sorriso che voleva tanto mostrarmi. Rimanemmo così per un po', come chi ha
appena scoperto un tesoro e va a farsi una bella dormita, perchè sa che quando
si sveglierà tutto sarà ancora lì, reale e vero com'era prima. Poi iniziammo a
mangiare e nonostante i miei pensieri precedenti, finimmo tutto, lasciando solo
qualche briciola per le formiche che sarebbero venute. Ce la prendemmo con
calma però, gustandoci il pasto avendo l'impressione che fosse la cosa più
prelibata mai sentita. E in effeti, in quel momento lo era.
Finito di
mangiare ci rimettemmo a fare un pisolino. Gli eventi della notte scorsa
probabilmente mi avevano stancato molto, e il mio amico non sembrava poi così
dispiaciuto di riposarsi un'altro po', non ci misi molto ad addormentarmi e ben
presto caddi in uno stato d'incoscienza. Mi ritrovai sulla strada per il
lavoro, vestito di tutto punto, con giacca e cravatta come ogni giorno. Alzai
il braccio sinitro, sul quale ero solito portare l'orologio e vidi che ero già
in ritardo. Ronald, il portinaio, mi salutò quando finalmente varcai le porte
del palazzo in cui lavoravo. Era un'edificio alto quasi otto piani, con muri
fatti di vetrate che davano sull'esterno, studiati per evitare che noi
impiegati perdessimo tempo o facessimo qualche sciocchezza sul posto. Le scale,
che in quel momento stavo salendo, si snodavano per tutta l'altezza,
accompagnate dall'ascensore dall'aspetto elegante e moderno che prendevano i
pigri per non fare il minimo sforzo. Dopo la prima rampa svoltai a destra senza
nemmeno pensarci, essendo le mie gambe ormai impostate sul tragitto. Marta, la
segretaria, mi fece un sorriso e mi allungò dei fogli da compilare, efficiente
e silenziosa come sempre e dopo averli presi, mi andai a sedere alla mia
scrivania. Subito il telefono iniziò a squillare. Lo presi e dissi la frase di
rito:” Studio del dottor Fini, come posso aiutarla?”, ma questo non smise di
suonare. La confusione doveva essere evidente sul mio volto perchè Marta mi
lanciò uno sguardo interrogativo. Scossi la cornetta ma nulla, quello non si
fermava. In quel momento un clacson
interruppe il mio sogno, riportandomi nel vicolo. Aprii gli occhi, ancora intontito. Le
immagini familiari del sonno mi occupavano la mente riempiendomi di confusione.
La mia irrequietezza doveva essere tangibile perchè il mio compagno si svegliò
e mi guardò incuriosito. Non sapevo come comunicare con lui, non sapevo nemmeno
se esistesse un modo così scelsi di mostrargli il motivo del mio, e del suo,
pisolino interrotto. Gli diedi una lieve spinta per farlo alzare e lo guidai
fuori dal nostro posticino. Per essere minuscolo le sue zampe erano molto
veloci. Sentivo persino che a volte doveva rallentare per non superarmi. Era
quasi divertente. Pensai a come doveva essere per le persone vedere un gatto
inseguito da un topo ma quando alzai il capo per osservarle, non vidi alcuno
sguardo su di noi. Eravamo invisibili ora. Potevamo guardare la parte mezza
vuota del bicchiere e dire che non contavamo più nulla, ma potevamo anche
guardare alla parte mezza piena e notare che ora eravamo liberi di fare ciò che
ci pareva. Non avevamo più restrizioni o imposizioni. Potevamo dormire tutto il
giorno e mangiare ciò che più desideravamo. Potevamo entrare nei luoghi più
nascosti e privati senza essere scoperti ma soprattutto senza essere arrestati.
Non dovevamo più pagare le tasse e non dovevamo più votare. Non dovevamo
preoccuparci più di niente tranne che di trovare un po' di cibo ogni tanto ma,
modestamente, visto come eravamo carini, non sarebbe stato un problema.
Dopo quelli che
sembrarono pochi secondi, ancora immerso nei miei pensieri, mi trovai davanti
al palazzo che fino a ieri era per me come una seconda casa. Il mio amico lo
guardò, mi guardò e capì. Senza che dovessi sforzarmi per comunicarglielo lui
semplicemente capì, mi si avvicinò e mi strusciò la testa sulla zampa, come
cercando di abbracciarmi. In quel momento c'era di fronte a me il passato, il
mio vecchio mondo irraggiungibile ma per la prima volta potevo anche scorgere
il futuro, riflesso in una vetrina all'altro lato della strada: io, ma non più
solo. Era quasi bello in realtà. Prima potevo comunicare con miliardi di
persone ma con nessuna davvero. Ora invece c'era solo lui con me, ma sentivo
che avrebbe potuto starmi vicino mondo più di quei miliardi di sconosciuti. Non
potevo però continuare a riferirmi a lui come a “il mio amico”, era scomodo.
Dovevo trovargli un nome. Un nome tutto suo che riassumesse tutto ciò che era
per me. Un nome in grado di essere come una freccia fluoresciente puntata su di
lui. Non poteva però essere banale come i soliti “Toby” o “Pallina”. Doveva
parlare anche senza venir mai pronunciato.
Cosa che in effetti non sarebbe mai accaduta, e a pensarci bene nemmeno
lui avrebbe saputo il suo nome, non essendo io in grado di dirglielo...O almeno
per il momento. Non riuscivo però a pensare a niente che fosse all'altezza.
Decisi che non mi sarei fatto fretta, d'altronde avevo tutto il tempo del
mondo, e non mi sembrava giusto scegliere una cosa così importante in pochi
secondi solo per il gusto di farlo. Sentii uno squittio e mi voltai. Aveva gli occhi sgranati e mi fissava. Io lo
guardai interrogativamente come a chiedergli quale fosse il problema. Era
immobile, sembrava quasi terrorizzato ma non capivo perchè.
- Woof! Woof! - si sentì provenire da non molto lontano. Quel suono attirò subito la mia attenzione. Avevo sempre adorato i cani. Erano così fedeli e affettuosi. E soprattutto erano degli ottimi compagni. Da quando ero nato avevo avuto cinque cani e li avevo amati tutti moltissimo, insieme ci eravamo divertiti un mondo. Solo negli ultimi anni, non so nemmeno perchè, non ce n'era stato nessuno a farmi compagnia. E forse era stato anche meglio perchè con i recenti avvenimenti, sapere di avere un cane a casa ad aspettare un padrone che probabilmente non sarebbe mai tornato mi avrebbe spezzato il cuore. Sarebbe stato peggio di quando vidi Hachiko e piansi per un'ora. Un altro abbaio mi destò da quei tristi pensieri. A qualche decina di metri da noi c'era quello che sembrava un Labrador dorato con una macchia marroncina su un'orecchia, abbastanza grande da avere almeno un anno. Mossi qualche passo per andare ad accarezzarlo, sembrava avere un pelo morbidissimo. Ma poi mi accorsi che il suo muso non era molto gioviale. Avrei potuto definirlo arrabbiato, o sdegnato, persino cattivo, ma gioviale proprio no. Allora guardai di nuovo il mio amico più piccolo e finalmente capii che quello che fissava terrorizzato non ero io, ma quel grosso cane dall'aria ben poco amichevole. A quel punto forse non era il caso di accarezzarlo. Il randagio, si avvicinò con passo fermo, e quello che prima era un abbaio dolce si trasformò in un ringhio secco. L'adrenalina iniziò a scorrermi nelle vene e il primo istinto fu quello di scappare, ora che mi ero accorto del pericolo. Ma sebbene quel cane fosse molto più grande di me, in confronto al mio amico era una magione. Non potevo abbandonarlo, lui contava su di me e questa era una buona occasione per dimostragli che ero davvero suo amico. E poi, tra i due ero io quello meno allarmato dal mostro bavoso che si avvicinava sempre di più. Senza pensarci ancora, mi misi davanti a quella che ormai era una pallina di pelo grigio scossa da forti tremori e che ogni tanto si lasciava sfuggire un squittio spaventato. Alzai il muso e fissai il mio nuovo nemico negli occhi. Mi concentrai sulla postura che preparai all'attacco, drizzai il pelo, bollai la vocina interiore che mi urlava di fuggire e ringhiai. Uno di quei ringhi cupi e acuti che, prima, quando sentivo nella notte mi facevano venire la pelle d'oca. Mi sentivo quasi bene ora. Pieno di energia, pronto a salvare il mondo. Il mostricciattolo vide che non scherzavo, o almeno lo pensò, perchè socchiuse gli occhi, come per darmi un avvertimento e poi si voltò, incamminandosi per la sua strada e lasciando a noi la nostra. Gonfiai il petto di soddisfazione e gongolai tra me e me per un altro po', poi diedi un colpetto alla pallina di pelo. Da questa sbucò una zampa e poi un'altra, che scoprirono un muso dall'aria confusa ma più tranquilla. Mi guardò obliquamente poi, ormai convinto, ritornò alla forma normale e mi si avvicinò. Era sorpreso, lo percepivo. In effetti non si vede tutti i giorni un gatto che ringhia ad un cane per salvare un topo ma io non ero solo un gatto e questo era il bello. Io ero un gatto e un uomo. Potevo dover fare pipì su quattro zampe e mangiare senza posate, ma il mio cuore, era il cuore di una uomo. Ero due cose che insieme creavano un miscuglio omogeneo. In più, avevo un'amico:Squit, tutto ciò che in realtà mi serviva.
- Woof! Woof! - si sentì provenire da non molto lontano. Quel suono attirò subito la mia attenzione. Avevo sempre adorato i cani. Erano così fedeli e affettuosi. E soprattutto erano degli ottimi compagni. Da quando ero nato avevo avuto cinque cani e li avevo amati tutti moltissimo, insieme ci eravamo divertiti un mondo. Solo negli ultimi anni, non so nemmeno perchè, non ce n'era stato nessuno a farmi compagnia. E forse era stato anche meglio perchè con i recenti avvenimenti, sapere di avere un cane a casa ad aspettare un padrone che probabilmente non sarebbe mai tornato mi avrebbe spezzato il cuore. Sarebbe stato peggio di quando vidi Hachiko e piansi per un'ora. Un altro abbaio mi destò da quei tristi pensieri. A qualche decina di metri da noi c'era quello che sembrava un Labrador dorato con una macchia marroncina su un'orecchia, abbastanza grande da avere almeno un anno. Mossi qualche passo per andare ad accarezzarlo, sembrava avere un pelo morbidissimo. Ma poi mi accorsi che il suo muso non era molto gioviale. Avrei potuto definirlo arrabbiato, o sdegnato, persino cattivo, ma gioviale proprio no. Allora guardai di nuovo il mio amico più piccolo e finalmente capii che quello che fissava terrorizzato non ero io, ma quel grosso cane dall'aria ben poco amichevole. A quel punto forse non era il caso di accarezzarlo. Il randagio, si avvicinò con passo fermo, e quello che prima era un abbaio dolce si trasformò in un ringhio secco. L'adrenalina iniziò a scorrermi nelle vene e il primo istinto fu quello di scappare, ora che mi ero accorto del pericolo. Ma sebbene quel cane fosse molto più grande di me, in confronto al mio amico era una magione. Non potevo abbandonarlo, lui contava su di me e questa era una buona occasione per dimostragli che ero davvero suo amico. E poi, tra i due ero io quello meno allarmato dal mostro bavoso che si avvicinava sempre di più. Senza pensarci ancora, mi misi davanti a quella che ormai era una pallina di pelo grigio scossa da forti tremori e che ogni tanto si lasciava sfuggire un squittio spaventato. Alzai il muso e fissai il mio nuovo nemico negli occhi. Mi concentrai sulla postura che preparai all'attacco, drizzai il pelo, bollai la vocina interiore che mi urlava di fuggire e ringhiai. Uno di quei ringhi cupi e acuti che, prima, quando sentivo nella notte mi facevano venire la pelle d'oca. Mi sentivo quasi bene ora. Pieno di energia, pronto a salvare il mondo. Il mostricciattolo vide che non scherzavo, o almeno lo pensò, perchè socchiuse gli occhi, come per darmi un avvertimento e poi si voltò, incamminandosi per la sua strada e lasciando a noi la nostra. Gonfiai il petto di soddisfazione e gongolai tra me e me per un altro po', poi diedi un colpetto alla pallina di pelo. Da questa sbucò una zampa e poi un'altra, che scoprirono un muso dall'aria confusa ma più tranquilla. Mi guardò obliquamente poi, ormai convinto, ritornò alla forma normale e mi si avvicinò. Era sorpreso, lo percepivo. In effetti non si vede tutti i giorni un gatto che ringhia ad un cane per salvare un topo ma io non ero solo un gatto e questo era il bello. Io ero un gatto e un uomo. Potevo dover fare pipì su quattro zampe e mangiare senza posate, ma il mio cuore, era il cuore di una uomo. Ero due cose che insieme creavano un miscuglio omogeneo. In più, avevo un'amico:Squit, tutto ciò che in realtà mi serviva.