giovedì 27 aprile 2017



UNA AMICIZIA IMPROBABILE
DI Nicole Lanzi


Iniziai a volteggiare, forse per tutta quella luce.  Nella confusione sbattei contro un albero, Quando riuscii ad alzarmi, seppur dolorante, camminai fino a che non vidi una pozza d'acqua e decisi di fermarmi per berne un sorso. Ma quando  mi riflettei sulla superficie scoprii con orrore di essere un gatto. Il primo istinto fu quello di gridare ma quando ci provai mi uscì uno strano verso a metà tra un miagolio e un gemito. Mi alzai di scatto ma persi l'equilibrio e caddi nella pozza con un sonoro "splash!". Sentivo l'acqua fredda che mi inzuppava il capo. I brividi mi scuotevano e mi facevano tremare. La confusione che avevo in testa sembrava un tornado. Non riuscivo a focalizzare nemmeno un pensiero chiaro e nitido. Rimasi seduto lì a lungo. Fino a quando non vidi un'altra luce accecante, come quella di prima e sentii uno stridio di gomme. Poi di nuovo il buio. Piano piano il caos si calmò. Iniziai a guardarmi intorno. C'erano delle case, molte case enormi. E delle ruote che passavano ogni tanto e che capii appartenevano a macchine, di cui però riuscivo a vedere solo la parte inferiore. Mi sentivo minuscolo in mezzo a tutto quell'enorme che fino a qualche ora fa era per me normale. Chiusi gli occhi e aspettai di svegliarmi, si sentire il rumore rassicurante della mia sveglia. Feci pressione e quelli iniziarono a bruciarmi ma continuai ad aspettare. Perchè questo non poteva che essere un sogno, uno di quei sogni strani e senza senso che le persone fanno quando sono stressate. Eppure qualche minuto dopo, quando li riaprii, tutto era rimasto uguale. La sveglia non aveva suonato. Non potevo però perdermi ancora nei miei pensieri e rimanere in mezzo alla strada.  Riprovai ad alzarmi, con cautela stavolta e a predere coscienza del peso del mio corpo. Mi sentivo leggerissimo, ora capivo come si dovevano sentire gli astronauti quando orbitavano nello spazio. Quasi senza pensarci drizzai il collo e mi sollevai sulle zampe posteriori. Tuttavia dopo soli pochi istanti capii che non era stata una brillante idea. Planando a terra ebbi quantomeno il buonsenso di mettere avanti gli arti che attutirono il colpo evitandomi uno spiacevole dolore al muso. Rimasi qualche istante in quella posizione, cercando di abituarmici. In lontananza scorsi un movimento e indietreggiai spaventato come avrei fatto di solito ma, sorprendentemente una parte di me era anche molto curiosa e quest'ultima ebbe la meglio. Così camminai un po' malfermo sulle mie nuove quattro zampe e raggiunsi un vicoletto. Lì finalmente potei osservare meglio quello che all'inizio mi aveva spaventato. Era un topolino. Un piccolo topolino grigiastro che rabbrividiva sotto un cassonetto. Quando ero umano avevo sempre avuto paura dei topi, ma adesso, non so nemmeno perchè, quel piccolino mi faceva solo una gran tenerezza. Mi chiesi se anche lui era stato un'altra cosa prima di diventare un topo. Mi chiesi se esistesse un modo per chiederglielo, per parlare insieme e sperai. Cercai di incrociare le dita come facevo spesso prima, ma incontrai resistenza e allora, per la prima volta, quasi sorrisi. Decisi che volevo conoscerlo, magari sarebbe scappato, magari non mi avrebbe capito...Ma ero solo, e non mi piaceva per niente, perciò quel piccolo topolino rappresentava la mia unica via di fuga dalla solitudine. Mi avvicinai lentamente, l'eleganza da poco acquisita aiutava molto. Cercai di emettere un verso, per avvisarlo del mio arrivo senza spaventarlo, ma uscì uno sbuffo. Sentii uno squittio fievole. Abbassai la testa, sperando che questo mi facesse sembrare meno terrificante ai suoi minuscoli occhi. Seguii il suo odore fino a che il mio muso sbattè contro il metallo del cassonetto. Mi abbassai un po flettendo le zampe e sbirciai sotto. Il poverino si era raggomitolato in un angolino e tremava incontrollatamente. Mi sdraiai completamente e appoggiai la testa a terra chiudendo gli occhi. Concentrandomi riuscii a fare qualcosa che poteva assomigliare a delle fusa. Dopo qualche minuto sentii il suo cuoricino battere più lentamente e il suo tremolio si affievolì. Non so per quanto rimasi così ma ad un certo punto udii un piccolo rumore che poteva sembrare una zampetta che si muoveva esitante sull'asfalto. Dopo qualche secondo lo udii di nuovo. Il mio forse nuovo amico si stava avvicinando. Sentii il suo naso annusarmi. Ero sicuro che avesse ancora una gran paura ma la sua curiosità prevaleva. Forse non eravamo poi così diversi. Spostai il muso lentamente, timoroso di farlo scappare e lo sfregai sulla sua morbida testa. Lui si bloccò come pietrificato ma non appena capì che non volevo fargli del male si rilassò. Rimanemmo così non so per quanto, purtroppo l'orologio da polso era rimasto nella mia vecchia vita. Riuscivo però a intuire che fosse notte fonda dagli schiamazzi che erano andati scemando e le luci della città ormai spente.  Ad un certo punto lui scattò, si scostò e camminò verso il retro del cassonetto. Io rimasi fermo, non sapenso cosa fosse successo. Avevo forse mosso una zampa e gli avevo fatto male? Volevo provare almeno a capire, a rimediare, così lo seguii. Lo trovai appollaiato su di un vecchio cuscino rattoppato, nascosto al resto del mondo. Lui mosse la testolina come indicandolo. Sembrava volesse invitarmi. Cautamente mossi qualche passo verso di lui. Vedendo che non scappava andai anch'io sul cuscino e mi sdraiai. Ero abituato ai letti più morbidi, alle coperte più soffici e alle sete più pregiate, ma in quel momento quel cuscino rattoppato era l'oggetto che più preferivo nell'universo. La stanchezza piano piano mi pervase. Gli occhi, non ricordo quando, si chiusero da soli. L'ultima cosa che sentii prima di cadere tra le braccia di Morfeo, fu una piccola pressione sulla zampa e un corpicino che mi si raggomitolava contro.  
Mi svegliai all'improvviso, forse a causa di qualche rumore. Quando aprii gli occhi ebbi un senso di smarrimento. Mi sentivo come quando in terza media avevo perso una scommessa e avevo dovuto tenere gli occhiali del mio compagno di banco per tutta la lezione. Era come avere una fotocamera al posto delle pupille che focallizzava ogni cosa su cui puntavo lo sguardo. Le antenne sui tetti delle case erano nitidissime come anche le sagome dei mattoni su di esse. Mi accorsi solo dopo poco che c'era ancora buio. La notte pervadeva ancora il cielo, illuminandolo con tante piccole meraviglie e questo rendeva tutto ancora più  surreale. Mi alzai, quasi in trance, tenendo sempre gli occhi verso l'alto. C'erano un silenzio, una pace, una tranquillità così emozionanti che mi facevano quasi tremare. Questo però portò il mio corpo a risvegliarsi e a  trasmettermi un segnale piuttosto chiaro. Mi incamminai verso la città, deciso a trovare un bagno chimico. Solo dopo qualche metro, mi resi conto di non poterlo usare. Chi aveva mai visto un gatto andare in bagno? Escludendo Sfigatto nel film con De Niro... Mi acquattai perciò dietro una scatola abbandonata pensando a come procedere. Cosa dovevo fare? Dovevo piegarmi come nei bagni pubblici o rimanere in piedi. Cercai di fare mente locale su tutte le scene di gatti che avevo visto e provai alla fine, ad alzare una zampa e togliermi il pensiero.  Ora mi sentivo molto meglio ma era quasi vergognoso aver fatto tanta fatica solo per un po di pipì. Ora, nonostante sentissi, non so perchè, il bisogno di curiosare in giro, volevo solo tornare a dormire, così con delicatezza mi rimisi sul cuscino accanto al mio amico e mi riappisolai.
-Vuoi una tazza di te, caro?-disse mia nonna adagiando sul tavolo un vassoio di pasticcini.                                                                                                                                - No, grazie . Questa sera ho una cena con i colleghi e non voglio rovinarmi l'appetito.- le risposi per quella che credevo ormai fosse la quinta volta. Ma d'altronde, la nonna era fatta così, ogni volta che andavo là aveva sempre pronti per me tanti stuzzichini che si impegnava per farmi sentire provando a convincermi di essere “troppo magro”. Il profumino di crema era però troppo invitante e non appena si alzò per prepararsi altro tè, con un movimento fulmineo mi infilai una di quelle delizie in bocca, assaporandola velocemente per inghiottire prima che tornasse. Una briciola era rimasta attaccata al labbro superiore così ci passai la lingua in un ultimo istante di golosità...  
Quando aprii gli occhi per la seconda volta, il sole aveva già salutato l'oriente. Prima avevo avuto molte volte l'occazione di studiarlo ed ora, a pensarci bene, era straordinario come una palla infuocata di idrogeno ed elio, fosse sospesa al centro dell'universo come una sorta di faro per le navi all'orizzonte. Ma avevo sprecato le mie occasioni e ora era un po' tardi. Non penso che una bibliotecaria sarebbe stata molto propensa a dar retta ad un gatto che vuole studiare astronomia. Comunque, per quanto le mie conoscenze sull'argomento fossero molto scarse, dalla posizione di quell'enorme stella supposi che fosse circa metà mattina. Il mio nuovo amico era ancora nel mondo dei sogni e sperai stesse cavalcando un'unicorno o bevendo una tazza di cioccolata calda davanti ad un bel camino acceso. Il pensiero allora mi corse subito al cibo, forse anche a causa del sogno e mi ricordai di non aver mangiato nulla dall'inizio della mia piccola avventura. Così mi alzai svogliatamente e mi stiracchiai. Non avevo mai capito perchè i gatti si stiracchiassero ogni singola volta che si alzavano, ma ora sì. Tutte le ossa del mio corpo si erano accostate nel rannicchiarmi e ora le sentivo come se fossero attaccate le une alle altre con la colla a presa rapida. Dopo qualche scricchiolio inquietante potei finalmente iniziare la mia perlustrazione. Non avevo la minima intenzione di mangiare la spazzatura o almeno non subito. Appena uscito dal vicolo svoltai a destra seguendo la scia di pane tostato e bacon che pervadeva l'aria. Questa mi portò fino ad un bar. Uno di quei posti dove tutti vanno alla mattina per mangiarsi una calda colazione che dà loro l'impressione di un pasto fatto in casa dalla mamma. Mi intrufolai dalla porta socchiusa e corsi in un'angolino per non farmi notare.                                                                                                Il pavimento era pulito, ma abbastanza ruvido da permettermi di non scivolare. Mi accostai al muro e abbassai la coda cercando di mimetizzarmi con la striscia nera dell'alto battiscopa. Non sentii nessun urlo quindi supposi di essermela cavata abbastanza bene. Strisciai più avanti fino a quando non riuscii ad arrivare vicino alla cassa o almeno a qualcosa che ci assomigliava. Di fianco c'era uno sgabello in legno dall'aria pesante sul quale scorsi una cesta. Poteva anche contenere dei volantini o delle uova finte, essendo ormai vicini a Pasqua, ma era la mia unica speranza in quel momento e decisi di tentare. Mi allungai verso l'alto, protendendo una zampa in avanti. La mia unghia si incastrò in qualcosa di morbido ma allo stesso tempo croccante. Come una crosta che racchiude un nucleo di cioccolato fuso. Avevo sempre pensato che i gatti fossero come gli umani e che sentendosi tirare le unghie soffrissero ma, a parte un lieve fastidio, non sentivo altro. Riuscii, non so come, a tirare a terra quella che avevo ormai capito essere una pagnotta appena sfornata. Quando potei finalmente vederla rimasi stupito. Era enorme! Ero solito mangiarne anche tre per pranzo quando ero umano, ma ora una sola sembrava capace di saziarmi per una settimana. Vi affondai i denti, assaporando il gusto della calda mollica e ormai senza più fretta, m'incamminai verso l'uscita, con il pane a precedermi. Non ci vedevo molto ma almeno se avessi sbattuto contro qualcosa ci sarebbe stato lui ad attutire il colpo.  Prima di aver potuto fare due passi però sentii un bisbiglio:”Tata guarda, c'è un gattino”. Subito non ci feci caso, ma quando andai a sbattere contro due corte gambe paffutelle intuì di essere io il gatto a cui si riferiva. Lentamente guardai in alto, verso due grandi occhi blu che, spalancati, mi guardavano con meraviglia. Era una bambina. Una piccola, anche se grande in confronto a me, bambina con le treccie e le gote rosse, alzate da un sorriso che faceva sfoggio di due denti mancanti. Al suo fianco c'era una ragazza, che non doveva avere più di vent'anni.  Non faceva però caso alla piccola, continuando a premere freneticamente sul cellulare. Non sapevo cosa fare: dovevo scappare? Ma poi mi avrebbe seguito o peggio, si sarebbe messa ad urlare. Dovevo restare? Non sapevo però quanto ci avrebbero messo le altre persone per notarmi. Ma neppure stare qui a rimuginare avrebbe portato a molto. Decisi perciò di tentare. Mossi la testa sulla sua gamba, sfregandola e provai a fare le fusa, cercando di sembrare dolce e innocuo.  Lei si abbassò e mi accarezzò. Sebbene non fosse molto delicata, come tutti i bambini d'altronde, era rassicurante. Quasi piacevole.  Aspettai qualche secondo, godendomi la sensazione di leggerezza e poi sgusciai via, con la pagnotta ancora in bocca. Ripercorsi la strada in senso contrario, ormai indifferente a tutti i profumi delle colazioni altrui. Io avevo la mia ed era più che sufficente. Tornai nel vicolo, non più così tetro alla luce del sole. Il mio amico era sempre lì, sul cuscino, con gli occhi chiusi e il pancino che si alzava ed abbassava lentamente, al ritmo del suo respiro. Misi la pagnotta sotto il suo naso e attesi che si svegliasse. Dopo qualche secondo si mosse e iniziò a tornare nel mondo reale. Appena mi vide tremò un attimo, come istintivamente ma poi si ricordò della sera prima e si calmò. Solo allora si accorse del grosso pezzo di pane che aveva davanti.  Lo fissò per qualche istante, con uno scintillio di stupore e gioia nello suardo, come chi vede una stella cadente per la prima volta. Infine spostò gli occhietti su di me e in essi vidi il sorriso che voleva tanto mostrarmi. Rimanemmo così per un po', come chi ha appena scoperto un tesoro e va a farsi una bella dormita, perchè sa che quando si sveglierà tutto sarà ancora lì, reale e vero com'era prima. Poi iniziammo a mangiare e nonostante i miei pensieri precedenti, finimmo tutto, lasciando solo qualche briciola per le formiche che sarebbero venute. Ce la prendemmo con calma però, gustandoci il pasto avendo l'impressione che fosse la cosa più prelibata mai sentita. E in effeti, in quel momento lo era.
Finito di mangiare ci rimettemmo a fare un pisolino. Gli eventi della notte scorsa probabilmente mi avevano stancato molto, e il mio amico non sembrava poi così dispiaciuto di riposarsi un'altro po', non ci misi molto ad addormentarmi e ben presto caddi in uno stato d'incoscienza. Mi ritrovai sulla strada per il lavoro, vestito di tutto punto, con giacca e cravatta come ogni giorno. Alzai il braccio sinitro, sul quale ero solito portare l'orologio e vidi che ero già in ritardo. Ronald, il portinaio, mi salutò quando finalmente varcai le porte del palazzo in cui lavoravo. Era un'edificio alto quasi otto piani, con muri fatti di vetrate che davano sull'esterno, studiati per evitare che noi impiegati perdessimo tempo o facessimo qualche sciocchezza sul posto. Le scale, che in quel momento stavo salendo, si snodavano per tutta l'altezza, accompagnate dall'ascensore dall'aspetto elegante e moderno che prendevano i pigri per non fare il minimo sforzo. Dopo la prima rampa svoltai a destra senza nemmeno pensarci, essendo le mie gambe ormai impostate sul tragitto. Marta, la segretaria, mi fece un sorriso e mi allungò dei fogli da compilare, efficiente e silenziosa come sempre e dopo averli presi, mi andai a sedere alla mia scrivania. Subito il telefono iniziò a squillare. Lo presi e dissi la frase di rito:” Studio del dottor Fini, come posso aiutarla?”, ma questo non smise di suonare. La confusione doveva essere evidente sul mio volto perchè Marta mi lanciò uno sguardo interrogativo. Scossi la cornetta ma nulla, quello non si fermava.  In quel momento un clacson interruppe il mio sogno, riportandomi nel vicolo.  Aprii gli occhi, ancora intontito. Le immagini familiari del sonno mi occupavano la mente riempiendomi di confusione. La mia irrequietezza doveva essere tangibile perchè il mio compagno si svegliò e mi guardò incuriosito. Non sapevo come comunicare con lui, non sapevo nemmeno se esistesse un modo così scelsi di mostrargli il motivo del mio, e del suo, pisolino interrotto. Gli diedi una lieve spinta per farlo alzare e lo guidai fuori dal nostro posticino. Per essere minuscolo le sue zampe erano molto veloci. Sentivo persino che a volte doveva rallentare per non superarmi. Era quasi divertente. Pensai a come doveva essere per le persone vedere un gatto inseguito da un topo ma quando alzai il capo per osservarle, non vidi alcuno sguardo su di noi. Eravamo invisibili ora. Potevamo guardare la parte mezza vuota del bicchiere e dire che non contavamo più nulla, ma potevamo anche guardare alla parte mezza piena e notare che ora eravamo liberi di fare ciò che ci pareva. Non avevamo più restrizioni o imposizioni. Potevamo dormire tutto il giorno e mangiare ciò che più desideravamo. Potevamo entrare nei luoghi più nascosti e privati senza essere scoperti ma soprattutto senza essere arrestati. Non dovevamo più pagare le tasse e non dovevamo più votare. Non dovevamo preoccuparci più di niente tranne che di trovare un po' di cibo ogni tanto ma, modestamente, visto come eravamo carini, non sarebbe stato un problema.
Dopo quelli che sembrarono pochi secondi, ancora immerso nei miei pensieri, mi trovai davanti al palazzo che fino a ieri era per me come una seconda casa. Il mio amico lo guardò, mi guardò e capì. Senza che dovessi sforzarmi per comunicarglielo lui semplicemente capì, mi si avvicinò e mi strusciò la testa sulla zampa, come cercando di abbracciarmi. In quel momento c'era di fronte a me il passato, il mio vecchio mondo irraggiungibile ma per la prima volta potevo anche scorgere il futuro, riflesso in una vetrina all'altro lato della strada: io, ma non più solo. Era quasi bello in realtà. Prima potevo comunicare con miliardi di persone ma con nessuna davvero. Ora invece c'era solo lui con me, ma sentivo che avrebbe potuto starmi vicino mondo più di quei miliardi di sconosciuti. Non potevo però continuare a riferirmi a lui come a “il mio amico”, era scomodo. Dovevo trovargli un nome. Un nome tutto suo che riassumesse tutto ciò che era per me. Un nome in grado di essere come una freccia fluoresciente puntata su di lui. Non poteva però essere banale come i soliti “Toby” o “Pallina”. Doveva parlare anche senza venir mai pronunciato.  Cosa che in effetti non sarebbe mai accaduta, e a pensarci bene nemmeno lui avrebbe saputo il suo nome, non essendo io in grado di dirglielo...O almeno per il momento. Non riuscivo però a pensare a niente che fosse all'altezza. Decisi che non mi sarei fatto fretta, d'altronde avevo tutto il tempo del mondo, e non mi sembrava giusto scegliere una cosa così importante in pochi secondi solo per il gusto di farlo. Sentii uno squittio e mi voltai.  Aveva gli occhi sgranati e mi fissava. Io lo guardai interrogativamente come a chiedergli quale fosse il problema. Era immobile, sembrava quasi terrorizzato ma non capivo perchè.
- Woof! Woof! - si sentì provenire da non molto lontano. Quel suono attirò subito la mia attenzione. Avevo sempre adorato i cani. Erano così fedeli e affettuosi. E soprattutto erano degli ottimi compagni. Da quando ero nato avevo avuto cinque cani e li avevo amati tutti moltissimo, insieme ci eravamo divertiti un mondo. Solo negli ultimi anni, non so nemmeno perchè, non ce n'era stato nessuno a farmi compagnia. E forse era stato anche meglio perchè con i recenti avvenimenti, sapere di avere un cane a casa ad aspettare un padrone che probabilmente non sarebbe mai tornato mi avrebbe spezzato il cuore. Sarebbe stato peggio di quando vidi Hachiko e piansi per un'ora. Un altro abbaio mi destò da quei tristi pensieri. A qualche decina di metri da noi c'era quello che sembrava un Labrador dorato con una macchia marroncina su un'orecchia, abbastanza grande da avere almeno un anno. Mossi qualche passo per andare ad accarezzarlo, sembrava avere un pelo morbidissimo. Ma poi mi accorsi che il suo muso non era molto gioviale. Avrei potuto definirlo arrabbiato, o sdegnato, persino cattivo, ma gioviale proprio no. Allora guardai di nuovo il mio amico più piccolo e finalmente capii che quello che fissava terrorizzato non ero io, ma quel grosso cane dall'aria ben poco amichevole. A quel punto forse non era il caso di accarezzarlo. Il randagio, si avvicinò con passo fermo, e quello che prima era un abbaio dolce si trasformò in un ringhio secco. L'adrenalina iniziò a scorrermi nelle vene e il primo istinto fu quello di scappare, ora che mi ero accorto del pericolo. Ma sebbene quel cane fosse molto più grande di me, in confronto al mio amico era una magione. Non potevo abbandonarlo, lui contava su di me e questa era una buona occasione per dimostragli che ero davvero suo amico. E poi, tra i due ero io quello meno allarmato dal mostro bavoso che si avvicinava sempre di più. Senza pensarci ancora, mi misi davanti a quella che ormai era una pallina di pelo grigio scossa da forti tremori e che ogni tanto si lasciava sfuggire un squittio spaventato. Alzai il muso e fissai il mio nuovo nemico negli occhi. Mi concentrai sulla postura che preparai all'attacco, drizzai il pelo,  bollai la vocina interiore che mi urlava di fuggire e ringhiai. Uno di quei ringhi cupi e acuti che, prima, quando sentivo nella notte mi facevano venire la pelle d'oca. Mi sentivo quasi bene ora. Pieno di energia, pronto a salvare il mondo. Il mostricciattolo vide che non scherzavo, o almeno lo pensò, perchè socchiuse gli occhi, come per darmi un avvertimento e poi si voltò, incamminandosi per la sua strada e lasciando a noi la nostra. Gonfiai il petto di soddisfazione e gongolai tra me e me per un altro po', poi diedi un colpetto alla pallina di pelo. Da questa sbucò una zampa e poi un'altra, che scoprirono un muso dall'aria confusa ma più tranquilla. Mi guardò obliquamente poi, ormai convinto, ritornò alla forma normale e mi si avvicinò. Era sorpreso, lo percepivo. In effetti non si vede tutti i giorni un gatto che ringhia ad un cane per salvare un topo ma io non ero solo un gatto e questo era il bello. Io ero un gatto e un uomo. Potevo dover fare pipì su quattro zampe e mangiare senza posate, ma il mio cuore, era il cuore di una uomo. Ero due cose che insieme creavano un miscuglio omogeneo. In più, avevo un'amico:Squit, tutto ciò che in realtà  mi serviva.

giovedì 20 aprile 2017



Non solo sogni
Di : Nicolò Alberti

Il crepaccio era ai suoi piedi. L'albero che lo copriva dalle luci delle torce proiettava strane ombre e l'intrepido gatto saltò. Ero in fondo al crepaccio a raccogliere alcune erbe quando con uno strano miagolio un gatto atterrò sull'albero accanto a me. Per un momento ci guardammo io con i miei occhi scuri e lui con il suo sguardo inquietante, totalmente bianco, eccetto per la minuscola pupilla verticale che guizzava da me al falcetto nella mia mano.
Appena mi resi conto della sua paura nascosi il falcetto nel cesto delle erbe e mi avvicinai lentamente. Lui continuò ad osservarmi per un po’ poi come se fosse la cosa più naturale del mondo saltò giù dall'albero con un solo balzo e avvicinatosi a me spinse la sua testa contro la mia mano protesa. Tornai a casa con il gatto che tranquillo mi trotterellava dietro. Non feci in tempo ad aprire la porta di casa che lui si era appollaiato davanti alla finestra come una sentinella pronta a dare l’allarme. Fu proprio quando mi diede la schiena che notai la strana macchia: era appena dietro l’orecchio destro e si protendeva fino alla zampa. Ma quello che mi stupì non fu la forma della macchia bensì il colore: rosso… Rosso sangue. “È un segno parecchio evidente” pensai “Chiunque lo stia cercando saprà di questa macchia”. Incuriosito mi misi alla scrivania per cercare qualche informazione su questo gatto. Digitai: ‘gatto macchiato di sangue’ appena cliccai il tasto invio si aprirono tantissime pagine una più inutile dell’altra. Qualche ora dopo mi risvegliai… Mi ero addormentato alla scrivania… Di nuovo. Però solo allora mi resi conto della pagina che mi ritrovavo davanti: “Gatto albino macchiato di sangue. È il quarto omicidio in cui compare la nuova leggenda della valle?” recitava l’articolo. Stupito mi girai e come presupponevo il gatto non c’era più. Mi affacciai alla finestra e lo vidi: nella nebbia si allontanava una pallida figura… Con una strana macchia di sangue sulla schiena. “Leggenda e?” mormorai. MI buttai la giacca addosso ed usci, dovevo trovarlo.
Mi avviai a passo sicuro dietro il gatto seguendolo per diversi minuti poi mi arrestai di scatto.
Il gatto era entrato nella foresta. Non in una comune foresta ma dentro la foresta… quella sulla quale circolavano orribili storie quella foresta dove nessuno si avventurava mai. Inizia i  a pensare : stupide e vecchie superstizioni o il istero del gatto?
Quale seguire?
Tentennai un attimo poi mi avviai a passo deciso dentro l’oscura foresta.
On so per quanto tempo camminai, ma dopo un po’ non so neanche io come, mi ritrovai rinchiuso dentro una stretta gabbia di foglie e rami. Davanti a me comparve una figura: il corpo era completamente coperto da un lungo mantello bianco, i lunghi capelli scuri le ricadevano morbidi sulle spalle e i freddi occhi azzurri mi fissavano “solo un ottuso come te poteva ignorare le leggende” mi disse
“lo prendo come un complimento April”.
Lei mi guardò con uno sguardo accusatorio e si allontanò. Già…  Conoscevo la mia carceriera. Una volta eravamo amici ma comunque l’ultima volta che ci eravamo visti non era in grado di rinchiudermi dentro una cella di foglie e rami almeno credo... passai tutta la giornata in quella cella, cercando di uscirne ma senza nessun successo.
Verso sera, o almeno quando la luce diminuì, April ritornò e dopo avermi osservato con il consueto sguardo che stava a significare” non dovresti essere qui, sei solo una persona orribile” mi liberò e con un cenno mi disse di seguirla.
Camminammo per qualche tempo lungo il margine della foresta finché davanti a me non si presentò il paesaggio più bello che avevo mai visto: davanti ai miei occhi si estendeva una gigantesca pianura costellata di meravigliosi prati, colline erbose e rocciose e lunghi fiumi che si raccoglievano in laghi meravigliosi dai riflessi cristallini. Ma la cosa più stupefacente di questo paesaggio erano le creature che lo abitavano: dal punto elevato dove ero potevo scorgere fauni, centauri, grifoni e molti altri. Poi, quando alzai gli occhi al cielo li vidi: due draghi volteggiavano tranquilli con le grosse ali da pipistrello che si muovevano pigre.
Sarei stato lì per ore ad osservare quel meraviglioso posto, ma la ragazza distolse la mia attenzione: “benvenuto nel paradiso dei sogni” mormorò.
“qui qualunque cosa tu desideri può avverarsi.” Detto questo prese la rincorsa e saltò oltre il bordo del baratro.
Mi sporsi verso la valle e la osservai stupefatto planare con un paio di aggraziate ali angeliche. Pensai un attimo poi appena sentii di essere pronto saltai anche io ed in un batter d’occhio mi ritrovai a valle dopo aver planato per attraversare un enorme fiume, come se niente fosse atterrai davanti allo sguardo stupefatto di April e feci sparire le ali con uno svolazzo.
Appena posai i piedi a terra, lei dissimulò lo stupore scuotendo la testa e continuò a camminare verso uno strano bagliore all’orizzonte. Mi sentivo un bambino, correvo qua e là osservando lo strano ambiente in cui mi trovavo cercando di imprimermi nella memoria più dettagli possibili mentre cercavo di non perdere la figura ammantata di bianco che mi precedeva.
Camminammo per qualche tempo ed attorno al bagliore cominciavano a delinearsi strane figure, finché non entrammo in un accampamento illuminato da un enorme falò alimentato da grossi ciocchi di una strana legna blu.
Lei continuò a camminare poi si fermò davanti ad una tenda circolare. Prima di entrare si girò e disse “aspetta qui” si girò ed entrò.
Per i primi due minuti cercai di seguire il suo ordine ma appena vidi che le persone che passavano mettevano con tranquillità la mano sul fuoco iniziai a camminare incuriosito.
Ripresi a guardarmi intorno osservando le tende dalle varie forme che mi circondavano e lentamente mi avvicinai al fuoco. Fu a quel punto che notai il suo strano colore; la fiamma infatti brillava di uno strano colore blu esattamente come i vostri ciocchi della legna dalla quale parta.
Ad un tratto con uno svolazzo di tenda April uscì inseguita da un uomo alto, lui ad un tratto accelerò e afferrò la ragazza per i fianchi avvicinandola a lui. Fece per baciarla ma l’unica cosa ch guadagnò fu un sonoro schiaffo che lo fece allontanare con uno sguardo stupito; lei si girò come se nulla fosse e con un cenno mi disse di seguirla, la seguii per qualche minuto fin quanto lei si infilò nell’unico edificio di mattoni dell’accampamento, attesi fuori finché la voce di April non mi invitò ad entrare.
L’interno era grezzo e spartano, una branda di paglia e un piccolo armadio in legno erano l’unico arredamento dell’ambiente.
La ragazza era seduta a gambe incrociate sulla branda, la testa sorretta dalle mani.
Non sapevo cosa fare e rimasi lì fermo, finché lei non si ……e alzandosi con un balzo uscì dall’edificio senza dire una parola.
” Di questo passo visiterò tutto l’accampamento” pensai, poi rassegnato la seguii. Girovagammo per ore finché la figura bianca non si infilò in un piccolo boschetto dove si sedette su un albero osservando il cielo. La imitai e rimanemmo per ore a guardare il cielo di quel meraviglioso posto abitato da figure alate e fantastiche.
Dopo un po’ mi chiese con un filo di voce: “perché sei entrato nella foresta?”
“un gatto” mormorai “seguivo un gatto” alla mia risposta seguii un lungo silenzio e lentamente le ombre iniziarono ad allungarsi.
In poco tempo il cielo iniziò ad oscurarsi e poco dopo mi ritrovai a contare le stelle finché la voce della ragazza tornò a rompere il silenzio” era da tanto tempo che non ti vedevo, mi sei mancato” non gli risposi ma allungai la mano e strinsi la sua.
Era parecchio tempo che eravamo lì, le mie palpebre iniziavano a farsi pesanti e April dormiva già da un pezzo.
Stavo per addormentarmi quando un fruscio di qualcosa di grosso che rompeva qualsiasi cosa sul suo cammino in un attimo le fronde si spostarono e…non posso dire di averlo visto ma era come una massa scura che attirava la luce distruggendola. A questa visione demoniaca si aggiungevano due occhi di brace che ardevano come un falò.
Prima di rendermene conto nella mia mano scintillava una spada candida che riluceva di luce propria. Alla vista dell’arma la creatura semplicemente si dissolse in un sbuffo di fumo e in un attimo fu come se, uin un qualche modo il buio della notte si schiarisse.
Pensieroso rimasi qualche secondo fermo come in una posizione difensiva e la mia spada si dissolse in un lampo.
Mi sedetti sul tronco e stremato mi addormentai come svuotato da tutte le mie energie.
Mi risvegliai scaldato dal torpore dei raggi del sole e lentamente dischiusi gli occhi ritrovandomi avvolto in un morbido abbraccio.
Sorrisi vedendo il viso di April s pochi centimetri dal mio e lentamente mi liberai dal suo abbraccio alzandomi.
Mi guardai intorno ancora assonnato e il mio sguardo si soffermò su di un cerchio di erba annerita, lì dove l’essere era scomparso la sera prima.
Ignorai la macchia e inizia a raccogliere legna per accendere un fuoco fu allora che mi resi conto che era un giorno che non toccavo cibo.
Spinto dalla fame inizia a raccogliere bacche e frutti limitandomi a quelle che conoscevo visto che non avevo nessuna intenzione di avvelenarmi già di primo mattino.
Tornai alla radura e dopo essermi seduto iniziai lentamente a sgranocchiare uno strano frutto che poteva assomigliare ad una mela, e aspettai accompagnato dal respiro regolare della ragazza.
Iniziai ad osservare meglio il suo viso imprimendomi nella mente tutti quei particolari che da così tanto tempo non vedevo e che mi erano mancati così tanto.
Dopo qualche minuto le sue labbra si mossero e disse “non è carino fissare le persone”
Arrossi e in tutta risposta dissi”  ..e non è carino fingere di dormire”.
Lei si alzò con un balzo accigliata e afferrato un paio di mele iniziò a mangiarle mentre osservava la zolla di terra annerita. “vedo che hai conosciuto gli incubi” continuò ad osservare la zolla poi passando alla seconda mela tornò verso di me passeggiando.” stanotte ho pensato al gatto, ma non mi viene in mente cosa possa rappresentare” si fermò sovrappensiero e io dissi ridacchiando: “pensare vuole dire abbracciarmi tutta la notte?”  lei continuò senza rispondere “ora direi di tornare all’accampamento così ti spiego ciò che devi sapere.” La osservai accigliato mentre si allontanava con la sua aria altezzosa e lo sguardo fiero. Mi incamminai rendendomi conto di quanto mi era mancata quella ragazza. Arrivati all’accampamento entrammo di nuovo in una delle costruzioni di mattoni e iniziammo a parlare “Gli incubi… da dove potrei iniziare...” iniziò “ be li potrei definire in poche parole ma cercherò di spiegarti tutto. Questo posto e tutte le creature che lo abitano sono sogni gli unici che possono uscire da qui siamo io e te, tempo fa sono iniziati a comparire tutti gli incubi delle persone: paure, sentimenti tutto si riversava nei sogni trasformandoli in incubi e portandoli qui dove dovrebbero stare i sogni. Ecco tutto, è più semplice di quel che sembra in effetti…” io pensai a quei due giorni così intensi che avevano cambiato così rapidamente i miei pensieri e giunsi a una conclusione. Gli incubi come le paure, i timori, i sentimenti negativi non erano altro che normali sentimenti rovinati, cambiati, ma pur sempre sentimenti. Guardai negli occhi di ghiaccio di April e mi resi conto in quel momento che la soluzione era più vicina del previsto, più semplice di quel che mi aspettassi perché in quel momento bastava solo scavare e trovare la parte migliore delle nostre paure e renderci conto che senza paura non c’è coraggio, che senza tristezza non c’è felicità e che in fondo basta solo provarci allora mi avvicinai alla ragazza e le sfiorai il viso con la mano. Mi ricordo solo quel momento poi più nulla, un vuoto totale, semplicemente mi risvegliai a casa mia sul letto confuso più che mai. Feci per alzarmi ma un peso mi bloccava; provai a liberarmene ma una ciocca di capelli neri mi sfiorò il braccio; feci per parlare sorridendo ma un paio di morbide labbra mi zittirono baciandomi. Non so cosa sia effettivamente successo, ma di una cosa sono sicuro a volte ai sogni basta crederci. E in quel momento un brivido mi costrinse a girarmi, mi guardai intorno e lo vidi nella nebbia in lontananza una figura si allontanava pallida, completamente bianca eccetto per una strana macchia rossa appena dietro l’orecchio destro.    

giovedì 6 aprile 2017



SOTTO……….SOPRA……..FORSE


Non capisco, mi sento strano stamattina come se la mia mente non riuscisse ad uscire dal grembo del sonno.C’è qualcosa che non va, gli occhi non riescono ad aprirsi e il corpo è inerte.
Cerco di muovermi e nulla accade.
Bagliori, dietro le palpebre chiuse, e una sensazione di angoscia montante.
Paura, o forse terrore , una morsa che attanaglia il mio cuore stanco.
Uno spiraglio, intravvedo qualcosa,…….il pavimento?
Se sono sdraiato sul letto perché vedo il pavimento?
Pavimento, sì,almeno a quattro metri da me….che diavolo ,sono sul soffitto?
Un refolo d’aria fredda di accarezza la fronte e l’anima, ecco,un attimo di piacere e benessere animale.
Il mondo è sottosopra o forse è solo la mia mente che deraglia, ma riesco a godere totalmente di questa carezza fresca che mi avvolge con una dolcezza struggente.
Carezza?  E’ forse una mano che mi sfiora o solo aria?
La mente prende il volo, turbini di pensieri inusitati e assurdi, mentre cerco di mettere a fuoco quel pavimento che ora si trasforma in un gioco iridescente di colori e luci.
Ansia……
Uno scossone, ancora e ancora
Il volto di mia madre china su di me.
“ sveglia……è ora…….sveglia”
Respiro di nuovo…..anzi  rido e respiro .

  LA MOSCA di Chiara Raineri Era molto probabilmente una mosca l’essere peloso e guardingo che stava appostato sulla finestra...