lunedì 22 maggio 2017




LA POESIA CHE NON RIESCO A SCRIVERE

di Chiara Raineri

Di vario genere è la poesia
che non riesco a scrivere.
Ora d’uno e ora d’un altro
il mio cuore sente passione,
e la mano schizza e strozza e insozza
il bianco scrigno della memoria;
e schiaccia e recide ed erode
le inutili letterine d’un significato bambino,
che già nate morte e subito ricomposte
e riordinate ancora e ancora sfatte
e mosse e rotte e perse ancora di più.
Così ardente a un punto partita
e così umiliata al punto stesso è tornata.
Non fiamme e fuoco e bagliori
che il cuore consumano e ardono e bruciano,
non gelo e tempesta e pioggia
che bagnano gli occhi e scuotono il corpo,
non amore e gioia e serenità
che mostrano fossette e colorano guance,
non questo e non quello
sono forti sì da tracciare il sentiero
in notti di nebbia
su monti innevati
di pensieri perduti.
Per quanto ancora
continuerò a poetare?
E per quanto ancora
dirò morte a ciò che è vita?

domenica 21 maggio 2017




















ECCO I NOSTRI SCRITTORI A REGGIONARRA 2017!!!!!!!!

IL VOGUE

( come scappare da se stessi)

DI
Miriana Mastrangelo

“Diverse volte al giorno guardo fuori dalla finestra la luce dorata del tiglio, come un gatto lecca il suo latte a piccoli sorsi rapidi e avidi.”
(Christian Bobin)




1.

Giulia era seduta sulla fredda panchina che fungeva da fermata dell'autobus, pensando al testo della canzone che stava ascoltando proprio in quel momento. “I know we can't work it out, you're always pulling me down. You never knew but no one liked you anyway. But I'm better, better, better, better. I'm better off my own. 'Cause I'm better, better, better, better. I'm better off alone.” Rimaneva sempre colpita da queste poche parole che in qualche modo le appartenevano, come se le avesse sempre sapute. Guardò l'orologio spazientita e si alzò. L'autobus si stava avvicinando lentamente come se avesse paura di non fermarsi in tempo. La ragazza si avvicinò ad esso e salì, ignara del fatto che quel viaggio le avrebbe cambiato la vita.
Guardava il lento scorrere del traffico pensando al colloquio che avrebbe avuto di lì a poco per entrare nel prestigioso conservatorio di musica. Si sentiva nervosa ed era sollevata dal fatto che l'autobus la proteggesse dal freddo pungente di novembre. Osservò i passeggeri, era una cosa che faceva spesso:guardare la gente come se potesse capire a cosa stavano pensando, se fossero felici, se il lavoro stesse andando bene. Il mezzo di trasporto non era molto affollato. Vicino agli obliteratori, in piedi, si trovavano due uomini di mezza età che discutevano come vecchi amici. Notò che uno di loro portava la fede al dito medio. Nei sedili davanti a lei c'erano due signore con le facce stanche provate dal lavoro. Negli ultimi posti in fondo due fidanzatini si guardavano in modo adorante. 'Si lasceranno presto', si sorprese a pensare. Poi vide una persona che non aveva notato prima. Era un uomo sulla trentina vestito accuratamente con tanto di sciarpa e cappotto, e un cappello leggermente sgualcito. Il tutto rigorosamente nero, il che gli conferiva un'aria parecchio misteriosa. Ma la cosa che più la colpiva era  il fatto che l'uomo la stesse guardando. Distolse subito lo sguardo, interrompendo il contatto visivo. Si sentiva a disagio. Non le era mai capitato di essere guardata così. Era intimorita ma non spaventata, non ancora. Sentì una mano posarsi sulla sua spalla. Un brivido le percorse il corpo e si girò di scatto anche se sapeva benissimo a chi quella mano appartenesse. <<Seguimi>>. La voce dell'uomo era bassa, calda e rassicurante. Giulia si sentì in qualche modo confortata da essa ma si riscosse subito, non doveva farsi incantare. L'uomo ritirò la mano e uscì dall'autobus che in quel momento si era fermato. Non guardò se la ragazza l'avesse seguito, era sicuro che l'avrebbe fatto. Ma Giulia restò ferma. Si sentiva turbata, spaventata, terrorizzata da ciò che era appena successo. Nessuno sull'autobus sembrava essersi accorto di nulla. Non era riuscita a vedere in che direzione fosse andato l'uomo, sembrava essersi smaterializzato appena sceso dal veicolo. Stava tremando. Cercò di calmarsi, dopo tutto non era successo niente per cui valesse la pena preoccuparsi tanto. Si costrinse a pensare al posto al conservatorio che forse avrebbe ottenuto, al gatto che aveva visto nel parco a fianco a casa sua, al libro che stava leggendo. Cercò di pensare a tutto meno che all'incontro avvenuto poco prima. Tanto che, arrivata a destinazione, si era convinta che fosse stato solo frutto della propria immaginazione. C'erano circa venti minuti a piedi dalla fermata dell'autobus al conservatorio. Pensò con nostalgia all'estate, alle giornate lunghe, alle feste in spiaggia e ai numerosi cocktail bevuti con le amiche su una monotona spiaggia grigia e schiamazzante facendo finta di essere in una delle più belle isole dei Caraibi. L'autunno le metteva tristezza. Nonostante fossero appena le sei del pomeriggio era già buio e la nebbia penetrava nelle ossa facendo rabbrividire gli intrepidi passanti. Era quasi arrivata quando imboccò una stretta stradina scarsamente illuminata dalla fioca luce giallognola dei lampioni. Si trovava in una zona industriale e si sentivano solo i rumori ovattati della strada da cui era venuta. Giulia non si sentiva affatto tranquilla. Ripensò al conservatorio. Desiderava tantissimo entrarci. Suonare l'arpa era sempre stata la sua passione. Le venne in mente l'immagine di sua nonna che le insegnava.  Si rattristò a quel pensiero.
All'improvviso sentì dei passi dietro di lei. Erano veloci ma tranquilli, come se chi stava camminando volesse raggiungere al più presto il proprio obiettivo, eppure non avesse dubbi sulla riuscita di quell'impresa. Si rese conto di essere lei l'obiettivo da raggiungere. Si fermò senza neanche volerlo, era paralizzata dal terrore.  Inconsciamente pensò alle poche lezioni di autodifesa che aveva seguito controvoglia e si pentì di non essersi impegnata di più.  Cercò di scacciare le immagini dei telegiornali che le si affollavano in testa. Dentro di lei idee diverse erano in conflitto fra loro. Aveva un'immensa voglia di correre, eppure sapeva che era sbagliato.  Una delle poche cose che aveva imparato era di correre solo se si era certi di essere più veloci dell'aggressore e Giulia non era certo un asso nella corsa. Voleva voltarsi ma non ne aveva il coraggio, anche perché, in cuor suo, sapeva già chi si trovava dietro di lei. Ma la cosa che più la riempiva di paura era il fatto che i passi si fossero fermati. Richiamando tutta la forza di volontà che possedeva decise di continuare a camminare come se nulla fosse successo. Dietro di lei il rumore dei passi ricominciò.  Si costrinse a pensare ad altro ma i suoi sensi erano all'erta, eppure riusciva solo a sentire il martellante rumore del proprio cuore. Ad un certo punto avvertì l'impellente bisogno di voltarsi. Fece un profondo respiro e si girò di scatto. Era anche peggio di ciò che si era immaginata. Andò completamente in panico tanto che le venne quasi da piangere. Non c'era nessuno. Si guardò attorno ma la strada era completamente vuota. Decise di credere di essersi inventata tutto. Stava per voltarsi e riprendere a camminare quando sentì una voce sussurrarle all'orecchio.
<<Sapevo che mi avresti seguito>>.
La paura di prima non era niente in confronto a ciò che stava provando in quel momento. Le sembrava quasi ridicolo essersi spaventata per un rumore di passi. Ora sentiva tutto più chiaramente: il rumore del traffico, le foglie che si muovevano sospinte da un leggero vento, un topo che rovistava nella spazzatura. Sentì il freddo dell'autunno e il calore del proprio corpo che in quel momento le sembrava così vivo. Sentì il fiato caldo dell'uomo sul proprio collo e una lacrima farsi strada sulla guancia, portandosi appresso una scia scura di trucco. Lui la prese per un braccio e la girò.  Non oppose resistenza, la sua forza di volontà se ne era completamente andata.  Non si sorprese di trovare davanti a sé colui che la stava osservando sull'autobus. La guardò negli occhi e Giulia si sentì rabbrividire per quello sguardo così intenso e invasivo. Finalmente lui sembrò prendere una decisione. Distolse gli occhi e prese qualcosa da una tasca interna del vecchio cappotto. Sembrava una moneta di ferro, spessa e di forma esagonale.  La diede alla ragazza che la prese diffidente, dopo di che si voltò, fece alcuni passi e svanì. Giulia osservò la moneta, sopra c'era inciso un gatto. La strinse nel palmo della mano e cadde a terra svenuta.

Un'ombra sorrise nel buio.  Aveva svolto il proprio compito.




2.

Guido si stiracchiò assonnato, non ne poteva più di star seduto. Uscì dall'ufficio preso dall'irrefrenabile voglia di camminare. L'aria era umida e poco accogliente, satura dei gas nocivi che il genere umano continuava a produrre. Si avviò per Via Manzoni finché non raggiunse i giardini pubblici.  Di tutta la città quello era in assoluto il luogo che preferiva.  Sentiva di averci passato i momenti più importanti della propria vita: la prima amicizia, la prima cotta, il primo bacio.  Quel luogo era sia felicità che tristezza. Da piccolo suo nonno lo portava lì tutti i sabato mattina.  Anche ora, a trent'anni, quel giorno assumeva un significato speciale. 
Si sedette su quella che ormai considerava la “sua” panchina.  La vernice rossa si stava lentamente staccando lasciando sempre più scoperto il freddo ferro.  Guido preferiva stare solo: quando le persone lo guardavano sentiva che la spessa corazza che aveva costruito negli anni si sgretolava pian piano come la vernice della panchina.  Aveva il terrore che qualcuno potesse intuire i suoi pensieri e scoprire i suoi più intimi segreti.
<<Signore! Signore! Può passarci il pallone?>>
Ci mise un po' a capire che si stavano rivolgendo a lui.  Si guardò intorno finché non vide un gruppetto di ragazzini che si sbracciavano irritati per la lentezza da lui dimostrata. Consegnò il pallone mezzo sgonfio a quello che sembrava il capo del gruppo e si diresse verso il confortante calore di un bar pulendosi sui pantaloni le mani sporche di fango.

Quando spinse la pesante porta di vetro fu accolto dall'allegro chiacchiericcio che persisteva nel locale e dal tipico odore di croissant appena sfornati.  Salutò con un cenno il barista e si diresse nella sala fumatori, al solito tavolo dove Geordie gli avrebbe portato il suo solito the verde.
Era seduto con le spalle alla finestra così che poteva osservare tutta la sala. Il suo sguardo si posò su una ragazza di poco più giovane di lui. Aveva un fisico da pallavolista, la pelle leggermente scura e i capelli ricci raccolti sulla nuca.
Stava ridendo con un uomo di molto più vecchio di lei.  Con capelli e barba scuri che facevano risaltare gli occhi verdi. Lei era seduta sul bordo della sedia, leggermente china sul tavolo con una sigaretta tenuta fra indice e medio in una posa volutamente sbarazzina.  Sentendo l'insistenza del suo sguardo la ragazza si girò e i suoi occhi nocciola erano pieni di curiosità e sicurezza quando incontrarono quelli di lui.  Proprio in quel momento arrivò Geordie con una tazza di the fumante in mano. Si sedette di fianco a Guido posando i gomiti sul tavolo e sporgendo la testa in avanti in modo confidenziale. 
<<Allora come va?>>
<<Bene>> rispose Guido in tono asettico.
<<Si chiama Hava>> disse il cameriere accennando con la testa alla ragazza.
<<Viene spesso qui?>>
<<Che ti importa?>> rispose Geordie in tono falsamente geloso.
Guido sapeva che non vedeva l'ora di raccontargli tutto ciò che conosceva di lei.
<<E' arrivata la settimana scorsa>> disse rispondendo alla domanda di prima.  << Viene ogni pomeriggio, dalle tre alle cinque. Spesso in compagnia di suo padre>>.

Come risposta alle preghiere di Guido il padre della ragazza se ne andò e lui, facendosi coraggio, si diresse verso di lei.  Si sentiva stranamente inquieto. 'E' solo una donna', pensò, 'ne hai affrontate altre. Solo una donna'. Eppure sentiva qualcosa di diverso e incredibilmente fatale in lei.
<<Posso?>> disse indicando la sedia.
<<Come scusi?>> replicò la ragazza socchiudendo gli occhi e cercando di interpretare il confuso borbottio uscito dalla bocca di colui che le stava di fronte. Non era una brutta bocca, si sorprese a pensare.  E neanche gli occhi azzurro cenere o i capelli color semola, lunghi appena qualche centimetro, erano male. 
<<Posso sedermi?>> questa volta Guido scandì meglio le parole e ricevette un cenno d'assenso.
<<Mi chiamo Guido>>
<<Io Hava, è albanese>>
Si strinsero la mano, quella di lei era decisa e ruvida in alcuni punti come se fosse abituata ai lavori manuali.
<<Scusa ma non mi sembri albanese>>  rispose Guido temendo di risultare scortese.  Ma Hava si  mise a ridere. 
<<Mio padre infatti è marocchino>>
Aveva un sorriso bellissimo che pareva perfetto, nonostante presentasse un piccolo diastema.
<<Senti ora devo proprio andare>> riprese lei <<Chiamami>>. E così dicendo gli lasciò il numero. Poi uscì, voltandosi verso di lui prima di chiudere la porta.
3.

Sentì l'aria fredda pungerle il viso. Si lasciò alle spalle il bar e si avviò verso i Navigli. Le persone per strada la osservavano sfacciatamente incuriosite. Ormai ci era abituata e non le dispiaceva affatto. Anzi, si vestiva appositamente in modo eccentrico e provocatorio ostentando una sicurezza che non possedeva. Amava essere osservata dalla gente che si chiedeva curiosa se lei fosse una persona importante. Un'attrice, forse, o una modella. Quando arrivò si sentì confortata.  Da piccola, prima del trasferimento, sua madre la accompagnava sempre lì e le raccontava bellissime storie.
La sua preferita era quella della ballerina che un giorno, stanca dei soliti spettacoli a teatro, scappò e fu costretta a lavorare come spazzacamino. Eppure non aveva abbandonato la sua passione. Ballava infatti sui tetti delle lussuose case signorili sentendosi finalmente libera. Poi, un giorno, mentre stava ballando cominciò a volare trasportata dal vento. 
Hava si ricordava a malapena le altre storie eppure c'era un momento particolare che non si sarebbe più scordata. Poco prima di tornare a casa sua madre le prendeva le mani e la osservava dritta negli occhi.  Poi le poneva una domanda, sempre la stessa.  <<Ti ricorderai di me guardando questo fiume, vero? Me lo prometti?>>. 
Allora non comprendeva quella frase, ma avrebbe capito presto.  Sua madre era morta di leucemia quando lei aveva appena dieci anni.  I medici, scoperto il tumore, le avevano dato appena tre mesi di vita e invece erano passati quattro anni fra chemio, trasfusioni e trapianti.  Ma la fine era giunta anche per lei.  Il destino può rallentare il proprio corso, ma non può essere fermato. 
Sentì qualcuno avvicinarsi correndo, ma non si voltò. Restò invece con i gomiti appoggiati al parapetto di uno dei tanti ponti che attraversavano i Navigli, guardando con gli occhi lucidi il sole, ormai basso all'orizzonte, giocare con l'acqua.  Si voltò, con una lentezza esasperata si tolse i grossi occhiali da sole che portava sempre indipendentemente dalla stagione.  Vide davanti a sé l'uomo del bar che, col respiro leggermente affannato, le porse la sua borsetta fucsia comprata al mercato. 
<<Sembra molto costosa, non dovresti lasciarla in giro>> disse lui sorridendo.
In risposta lei fece un ghigno malizioso <<in questo caso ti ringrazio per avermela riportata>>, poi guardò l'orologio,  dal cinturino consumato, che portava al polso e, mascherando lo stupore che in quel momento provava, disse: << ci hai messo poco. Seguimi.>>
Poi si incamminò verso la casa di Alda Merini. 



4.
Guido era chiaramente stupito e anche un po' spaventato. E' solo una donna, pensò, e, scuotendo la testa, la seguì. Durante il tragitto le pose più volte le stesse domande. Chi sei? Dove mi stai portando? Perchè volevi che ti seguissi? Ma lei non rispose a nessuna di esse continuando a guardarlo con fare altezzoso. Dovettero arrivare davanti ad un insignificante edificio grigio prima che lei proferisse parola. Lo portò davanti ad una porticina di legno che sembrava si potesse sbriciolare solamente toccandola. Hava tirò fuori una bandana bianca.
<<Chiudi gli occhi>>
<<Perchè?>> sbottò Guido irritato dal comportamento di quella ragazza che lo aveva tanto attratto. Per tutta risposta lei gli conficcò le lunghe unghie finte nel braccio, si mise in punta di piedi e gli sussurrò all'orecchio con fare minaccioso: <<chiudi gli occhi. O dovrò farlo io>>
Lui ebbe un fremito. Pensò di ribellarsi, pensò di scappare. Sarebbe stato facile. Solamente uno spintone e sarebbe stato libero. Poteva farlo, era molto più forte di lei. Pensò di costringerla a rivelargli tutto. Sembrava possedere una corazza impenetrabile, eppure era sicuro che, con una lieve pressione, sarebbe crollata. Avrebbe facilmente potuto liberarsi dal giogo che lei gli aveva assegnato. Invece, molto lentamente, con un sospirò, chiuse gli occhi. Hava sorrise soddisfatta. Aprì la porta e lo spinse dentro. Lo condusse per un lungo corridoio scarsamente illuminato da fredde luci industriali. Camminarono a lungo. Prima scesero, poi risalirono e poi scesero di nuovo. Voltarono prima a destra, poi a sinistra e poi nuovamente a destra. E continuarono a voltare ancora e ancora e ancora una volta finché Guido non perse completamente il senso dell'orientamento.
Avanzava a fatica, aveva paura di cadere o di sbattere contro qualcosa. Aveva paura di ciò che lo aspettava. L'unica cosa che lo teneva attaccato alla realtà era la mano della ragazza che premeva sulla sua schiena. Si rese conto che non lo aveva bendato, sicura che lui non avrebbe osato aprire gli occhi e aveva ragione.


5.

Finalmente lei si fermò. <<Puoi aprirli, adesso>>
Ancora prima di vederlo, aveva percepito di essere uscito dal tunnel. Si trovava in quella che aveva tutto l'aspetto di essere una caverna, una caverna di dimensioni gigantesche. In quel momento erano sopra ad una specie di soppalco. Sotto di loro, centinaia di persone lavoravano: alcune erano riunite attorno ad una scrivania, altre ad osservare al microscopio. C'era poi chi progettava, chi costruiva ingranaggi, chi faceva calcoli al computer. Tutto il lavoro, però, era in funzione di qualcosa o qualcuno che si trovava al centro della grotta. Esso era però protetto da una potente impalcatura in metallo, restando così nascosto alla vista di Guido.
<<Vieni>> disse Hava ora in modo più gentile. Scesero delle strette scale tremolanti che li condussero fino a terra. Guido alzò lo sguardo e si rese veramente conto delle immense dimensioni di quel luogo, illuminato a giorno da potenti neon. Le alte pareti in pietra chiara erano lucide in più punti a causa dei rivoli d'acqua che sgorgavano da esse. L'acustica di quel luogo avrebbe permesso di sentire perfettamente una persona sussurrare, anche se essa si fosse trovata dalla parte opposta della caverna. Eppure nessuno parlava, instancabilmente concentrato sul proprio lavoro.
<<Guido, attento!>>
Era andato a sbattere contro ad una scrivania spargendo documenti e scartoffie sul pavimento tutt'attorno. La massiccia donna che stava lavorando a quel tavolo cominciò a raccogliere i fogli che erano caduti, ignorando deliberatamente le scuse che Guido le stava porgendo. Ogni movimento della donna racchiudeva in sé qualcosa di terribilmente sbagliato. Era ripetitivo e non naturale come se andasse contro alla sua stessa forza di volontà.

<<E' inutile che continui a scusarti, Guido, non ti può sentire. Guarda tu stesso>>.
La voce non era quella di Hava ma apparteneva ad un uomo, lo stesso che aveva visto poco prima al bar in compagnia della ragazza. Suo padre. Guido guardò meglio la donna. Sulle mani era presente una specie di corazza color bronzo che riproduceva l'ossatura di esse e che in più punti si infilava sotto la pelle. Essa continuava poi dalla parte del braccio sparendo sotto i vestiti e ritornando visibile sul collo. Quando alzò la testa, Guido le guardò gli occhi e un brivido gli fece immediatamente rizzare tutti i peli del corpo. Erano vuoti, completamente bianchi.
<<E' in tranche?>>
<<No>> rispose l'uomo sorridendo <<è morta>>.
Guido rimase per un attimo paralizzato cercando di assimilare la notizia. Poi cominciò a guardarsi intorno freneticamente, ma ovunque volgesse lo sguardo vedeva solamente armature bronzo e occhi bianchi. <<Sono tutti morti>> sussurrò. La vista cominciò a diventare confusa. Si accorse di riuscire a respirare a malapena. Cercò di calmarsi ma provava un dolore lancinante alla testa.
Sentiva le ginocchia cedere, cercò di aggrapparsi a qualcosa ma le mani avevano perso sensibilità.
Il mondo smise di girare quando Hava gli posò una mano sopra alla spalla.
<<Tranquillo>> riprese l'uomo <<non siamo assassini. Costoro avevano donato il proprio corpo alla scienza>>.
<<E per cosa li utilizzate?>>
<<Vengono utilizzati per il nostro progetto 'Vogue248360'>> rispose il dottor Jadid giocherellando distrattamente col coltello a serramanico che aveva tirato fuori dalla tasca interna del cappotto <<sa, abbiamo notato che i morti tengono meglio i segreti. E ciò vale anche per lei>>.
<<E' una minaccia?>>
<<Oserei piuttosto dire un avvertimento. Scappa e ti uccideremo. Rivela anche solo ad una formica qualsiasi informazione riguardante il nostro progetto e ti pentirai di averlo fatto>>.
<<E se non collaborassi?>> rispose Guido mostrando più forza di quella che possedeva.
Jadid sorrise in modo canzonatorio. <<Seguimi>>.
Fu un attimo e Guido sentì la morsa fredda e metallica delle manette sui suoi polsi <<così ora sono tuo prigioniero?>> sussurrò in modo ironico e non poco seducente a colei che l'aveva ammanettato. Nel voltarsi per parlarle i loro visi erano finiti vicini come non lo erano mai stati. Osservò le miriadi di increspature che si intricavano sulle labbra piene di Hava. Ma lei non rispose, non accennò nemmeno ad un sorriso. Teneva lo sguardo fisso davanti a sé con aria assente e preoccupata. Si stavano dirigendo verso ad una piccola apertura sulla parete. Avvicinandosi, però, si rese conto che non era affatto piccola. Anzi, era una vera e propria porta che conduceva ad una caverna grande quanto la precedente. Guardandosi intorno scoprì che erano presenti un'altra decina di porte come quella che prima non aveva notato. La caverna in cui era appena entrato era più buia della precedente, non riuscì a vedere molto. L'unica cosa che intravide, prima di essere condotto da un'altra parte, furono degli enormi contenitori pieni di liquido bluastro all'interno dei quali galleggiava qualcosa. A Guido venne la pelle d'oca solo ad immaginare di cosa si trattasse. La visione non durò molto poiché Hava lo spintonò attraverso un buio cunicolo. Questa volta lo spazio era molto ristretto e Guido dovette piegarsi per evitare di sbattere la testa.  Terminato il claustrofobico passaggio si accedeva ad una specie di sala d'attesa dove una donna sulla trentina inseriva dati al computer. Doveva essere molto bella da viva, pensò amareggiato Guido notando l'armatura di bronzo. Senza degnare di uno sguardo la donna, Jadid li condusse alla stanza successiva. Essa però, non era affatto una stanza. C'era un piccolo spiazzo che conduceva ad una lunga scalinata. Essa era così imponente e sfarzosa che si sarebbe aspettato di veder passare Luigi XIV e così scarsamente illuminata da fiaccole appese alle pareti e così ripida che non si sarebbe sorpreso se li avesse condotti  fino al centro della terra. Invece arrivarono in una grande stanza freddamente illuminata. Lì sembrava che ci abitassero due persone completamente diverse in quanto era per metà stracolma di delicati apparecchi scientifici ammassati l'uno sull'altro come cianfrusaglie vendute al mercato e per l'altra metà completamente spoglia. Gli unici addobbi erano i pezzi di vernice scrostata caduti sul pavimento e un grosso e polveroso paravento rosso con ricami floreali che copriva gran parte di quella metà di stanza. Esso svolgeva il compito di celare l'ingresso ad una stanzetta annessa. E fu proprio lì che Guido venne condotto. Lo spazio che gli si apriva davanti era una sorta di largo corridoio. Su entrambi i lati si susseguivano delle piccole celle. Dentro ad esse, celati dalle robuste porte di acciaio balistico, i prigionieri si lambiccavano seduti davanti ad una tremolante scrivania oppure si godevano un breve riposo sulla branda mangiucchiata dai topi. Ma lo sguardo di Guido si era fermato ben prima delle celle. Esse infatti non coprivano tutta la parete ma lasciavano scoperta una striscia di muro nella quale erano incastonate verticalmente una decina di spranghe di ferro. Al momento solo due di esse erano utilizzate. Ad una era ammanettata una ragazza piuttosto alta con occhi verdi e uno sguardo ribelle pieno di paura e decisione. La sua pelle leggermente abbronzata sembrava cadaverica in confronto ai capelli corvini che le incorniciavano il viso donandole un'aria innocente e spaurita. Guardava il vuoto e i respiri erano lenti e profondi come se stesse meditando. Accanto a lei un uomo sedeva stravaccato, con le spalle appoggiate alla parete e la testa reclinata. Egli era un tipo del tutto particolare. Era basso e mingherlino e lo sembrava ancora di più dopo che le privazioni della prigionia gli avevano di molto fatto stringere la cinghia. Era un professore tedesco i cui studi sulla gravitazione dei buchi neri erano molto apprezzati da scienziati di tutto il mondo. Fin da piccolo si era dimostrato un genio, ma ora la sua genialità lo aveva portato in questa situazione. Sul viso smagrito gli occhi nocciola, nascosti dietro a spessi occhiali rotondi, sembravano enormi. Da giovane aveva fatto innamorare non poche ragazze e ora pensava con malinconia ai suoi due bellissimi figli che non vedeva da tantissimo tempo. Si chiedeva spesso se i sussidi di mantenimento arrivassero ancora nonostante lui fosse prigioniero. Quasi sperava di no. Si illudeva che in quel caso la sua ex moglie si sarebbe preoccupata e avrebbe avviato una spedizione di ricerca. Ma sapeva bene che erano solamente sogni ad occhi aperti. Più probabilmente avrebbe pensato che lui avesse finito tutti i soldi in alcolici di ogni genere. Ancora una volta.
Quando Guido venne incatenato ad una delle spranghe egli gli rivolse un caloroso, ma stanco, sorriso. La ragazza era invece impassibile.
Jadid gli si avvicinò fino a far sfiorare i loro nasi. Aveva stampato sul viso un ghigno che non era solo malizioso, ma esprimeva cattiveria nella sua forma più potente.
<<Questo, mio caro Guido è ciò che succede a chi si rifiuta di collaborare. Resterai incatenato qui fin quando non avrai preso la tua decisione. Dormici su stanotte e domani verrò a sentire la tua risposta>>.
Dopo di che se ne andò seguito dalla figlia, lasciando Guido spaventato e confuso. Né Giulia né il professore Richter sembravano intenzionati a parlare. Forse sono troppo stanchi, pensò Guido.



6.
Sentiva già le braccia indolenzite ed era lì solo da qualche ora. Rabbrividì al pensiero di quanto sarebbe dovuto rimanere in quella posizione. Settimane, mesi, anni.
Doveva essere notte quando Hava gli si presentò davanti. Aveva gli occhi rossi e gonfi e sembrava sconvolta. Liberò Guido, lo bendò e lo condusse in una piccola stanza. Essa doveva appartenere a qualcuno di importante o addirittura allo stesso professore Jadid. Era più bella e curata rispetto agli ambienti che fino ad allora aveva visitato. Il pavimento era coperto da una moquette rosso sangue e sulle pareti erano affissi quadri e fotografie di bambini deformi, guerre e inquinamento. Su una scrivania in stile barocco si trovava un grosso computer e moderno computer. Hava lo accese e lo invitò a guardare. Si sedettero su due scomodi sgabelli di legno che stonavano irreparabilmente col lusso della stanza. Sul computer apparvero immagini di quella che sembrava un'enorme nave spaziale. Era una semisfera ricoperta da lucenti lamine metalliche.
<<Stiamo lavorando a questo progetto da circa una decina di anni>> disse Hava <<ora è pronta ma ci serve il tuo aiuto per potenziarla>>.
Bene, pensò Guido, almeno ora so a cosa lavoravano tutti quei morti.
<<Questa macchina è stata creata da mio padre>> riprese Hava <<per sconfiggere ciò che vedi rappresentato nelle fotografie appese nelle pareti. Il Vogue vuole perfezionare l'uomo. Eliminarne le debolezze e ridurre i danni da lui causati>>. Parlava euforicamente e con gli occhi lucidi per l'emozione. Credeva ciò che stava facendo.
<<Vogliamo far sì che l'uomo si auto-sostenga, che non sfrutti più la terra come fosse di sua proprietà. Vogliamo ridurre le malattie e dare ad ognuno pari opportunità. Grazie a potentissime radiazioni siamo riusciti, dopo vari tentativi, a modificare il codice genetico senza danni collaterali.>>
Guido rabbrividì. Dopo vari tentativi. Chissà quante persone erano già morte.
Hava parve scoraggiarsi un poco sotto il duro sguardo di lui. Guido la vide incerta, probabilmente scoraggiata dal suo mutismo. Sapeva che cercava il suo appoggio, ma non era intenzionato a darglielo. Non che la proposta non gli fosse parsa allettante ma, al contrario di Jadid, lui ne prevedeva le conseguenze, anche quelle nocive. Certo, il progetto era molto bello, ma non avevano tenuto conto della mentalità umana.
<<Dove li tenete quelli su cui avete sperimentato il Vogue?>> Non disse persone, non era sicuro che lo fossero.  Hava, con un cenno, lo invitò a seguirla e lo condusse ad un grande laboratorio.

Dentro a teche di vetro grandi più o meno come una stanza, compivano la loro esistenza vuoti involucri di esserei umani. Alcuni erano soli dentro alla loro grande gabbia trasparente, altri in gruppo, o in coppia. Le teche erano arredate in modo diverso l'una dall'altra: alcune riproducevano un ambiente familiare altre luoghi pubblici come un bar od una palestra, nel debole tentativo di creare uno spazio quotidiano. Eppure nessuno sembrava contrariato per quella situazione. Anzi su ognuno campeggiava la stessa espressione di felicità. Esattamente la stessa. Guido indietreggiò di qualche passo quando se ne rese conto. Su ciascuno di quegli esseri era presente lo stesso sorriso  e la stessa espressione vuota negli occhi. Inoltre, erano tutti terribilmente somiglianti ad Hava: stessi lineamenti affilati ma armonici, stesso modo di muovere le mani e di tenere la testa sempre leggermente reclinata indietro. Solo gli occhi erano diversi. Non di un caldo nocciola ma di mille sfumature di blu.  A tratti erano freddi come il ghiaccio o accoglienti come l'oceano. Anche la pelle era notevolmente più chiara, più occidentale che africana. Ma la cosa peggiore doveva ancora scoprirla. Fra questi esperimenti erano presenti anche dei bambini: alcuni appena nati, altri ancora in attesa di vedere la luce. Vide infatti alcune donne incinte, esse si trovavano soprattutto nelle celle doppie dove erano costrette a convivere con un uomo, ma non solo. Infatti anche nelle teche abitate da due uomini o due donne erano presenti degli infanti. Ma la cosa che più lo riempì di orrore fu vedere una donna completamente sola, che cullava un neonato. Hava si accorse di ciò che Guido stava guardando.
<<Abbiamo fatto in modo di diminuire le differenze fra i due sessi. Ora ognuno può fecondare e concepire liberamente, sia egli  uomo o donna>>. Ma tutto ciò a Guido importava relativamente, teneva lo sguardo fisso sulla donna che in qualche modo era riuscita a far nascere un bambino da sola.
<<Autofecondazione>> spiegò la ragazza capendo finalmente il suo desiderio.<<Per far sopravvivere la specie nel caso non ci siano partenr disponibili>> .
Guido era terrorizzato, ma allo stesso tempo provava compassione. Compassione per ciò che quella donna era diventata. Compassione per ciò che sarebbe diventata la razza umana se lui non fosse riuscito a fermare quell'assurdo progetto.  Cercò un contatto visivo con la donna, ma lei non dava segno di vederlo. Probabilmente i vetri erano oscurati, o forse a quella razza super-umana non serviva la vista.
 Finalmente Guido parlò: <<Hava non capisci cosa avete creato? Tuo padre non vuole perfezionare la razza umana, ma creare un esercito di droni dall'esistenza perfetta. Tutto ciò è agghiacciante e rivoltante. Non capisco come tu faccia ad approvare tutto questo>>.
Hava rimase per un attimo senza parole. Stava per ribattere quando sentì un potente boato. Veniva da una piccola porticina azzurra, sembrava innocente ma nascondeva terribili segreti. Guido corse subito in quella direzione deciso a scoprire la provenienza di quel rumore. Ignorò le grida di Hava che gli dicevano di fermarsi, che quel luogo era proibito anche per lei. Appena ebbe spalancato la porticina azzurra si pentì di averlo fatto. Anche qui erano presenti delle gabbie, ma se Guido aveva pensato che non potesse esserci nulla di più agghiacciante degli inquilini della stanza precedente, si dovette ricredere. In queste stanze si trovavano gli esperimenti falliti. A Guido la deformità non aveva mai fatto paura, ma questa volta era del tutto diverso. Vide tre gemelle omozigoti con le braccia che uscivano della vuote cavità orbitali. Una grassa signora londinese era perfettamente tagliata a metà,:la parte sinistra era pienamente funzionante, quella destra semplicemente inesistente. Vide poi una bambina che a tratti veniva scaraventata, da chissà qual forza misteriosa, da una parte  all'altra della sua cella. Osservò le forme più assurde di ogni genere di tic e di deformazione. Chi aveva otto facce e chi non ne aveva nessuna. Uomini che sbattevano le mani in continuazione e non riuscivano a fermarsi. Lunghi peli neri che coprivano completamente il viso lasciando scoperto il resto del corpo. Un uomo stava mangiando col piede destro, perché lì aveva la bocca.
 Guido girò furioso verso Hava.
 <<Vedi cosa hai fatto? Cos'ha provocato il tuo fantastico progetto? Tu e tuo padre siete dei pazzi. Utilizzate i morti come operai, create una super razza in grado di fare solo quello che voi volete e avete fatto soffrire centinaia di persone>>.
 Ma ad Hava la sua voce arrivava lontana. Stava osservando un bambino con un solo occhio che si divertiva a creare ombre sul pavimento con le dita. Ad intervalli regolari però singhiozzava e la sua pelle cambiava colore. Hava non era mai stata lì prima. Aveva agli occhi lacrime di rabbia verso suo padre che le aveva tenuto nascosto tutto e di tristezza per ciò che aveva appena scoperto. Sentì Guido correre via e, sola, cominciò finalmente a piangere.


Guido non sapeva come avesse fatto a non perdersi. C'erano un infinità di gallerie e di scorciatoie tutte uguali che persino il Minotauro avrebbe avuto difficoltà ad orientarsi. Forse per la paura, forse per l'adrenalina, imboccò la strada giusta al primo colpo. Quando arrivò alla stanza col paravento,  sia il dotto Richter che Giulia erano profondamente addormentati. Ci mise un po' a svegliarli e quando ci riuscì i loro sguardi esprimevano solamente fastidio e stanchezza. Ma non si curò di questo, doveva agire in fretta.
<<Sapete a cosa serve il Vogue?>>
I due fecero cenno di assenso.
<<E sapete anche come distruggerlo?>>
Questa volta la risposta fu negativa.
Guido si vide costretto a pensare in fretta ad un piano alternativo.
Tornò nella parte di stanza stracolma di ogni sorta di apparecchio. Dopo qualche ricerca trovò ciò che cercava: un paio di pinzette ed un filo metallico. Con quelli riuscì a liberare Giulia e il professore che, ancora mezzi assonnati, lo guardavano sbalorditi. 
<<Scapperemo da qui>> decise Guido <<E chiederemo aiuto>>




7.
Il professor Jadid aveva capito che qualcosa stava andando storto. L'allarme lo aveva bruscamente strappato dai sogni, indicandogli che qualcuno aveva fatto irruzione nella stanza a cui aveva proibito l'accesso a tutti. Entrandoci non si stupì di trovarci Hava, sapeva che prima o poi l'avrebbe scoperta. Le poggiò una mano sulla spalla, ma lei si scansò bruscamente. Con il viso pieno di lacrime  lei gli urlò contro qualcosa. Jadid non cercò di fermarla quando corse via. Uscì invece tranquillamente dalla stanza che testimoniava i suoi insuccessi per andare a contemplare, come  faceva spesso, gli esperimenti andati a buon fine. I ognuno di essi cercava le sembianze di sua moglie, che tanto faticosamente aveva cercato di produrre. La pelle, i movimenti, il fisico. Era tutto perfetto tranne l'espressione degli occhi. Non era autentica. Non aveva quella luce che tanto aveva amato. Prese il cellulare dalla tasca e si collegò alle telecamere di sicurezza. Vide Guido, il professore e  Giulia cercare frettolosamente una via di fuga. Vide sua figlia discutere con loro e poi correre nella direzione opposta. Non si illuse che Hava avesse tentato di fermarli, sapeva che era terribilmente attratta da quel ragazzo che lui aveva voluto coinvolgere. Sapeva cosa sua figlia stesse cercando, ma non le impedì in alcun modo di prenderlo. Il congegno ideato per distruggere il Vogue ,infatti, non funzionava. Non aveva alcuna utilità se non quella di rassicurare la figlia. Prima di iniziare il progetto le aveva promesso che se qualcosa fosse andato storto avrebbe distrutto la sua preziosa invenzione. Si alzò lentamente e si diresse verso il Vogue. Non correva alcun pericolo, ma non voleva lasciar fuggire coloro che fino a poco prima erano suoi prigionieri.


8.
Grazie alle indicazioni lasciate da Hava trovarono facilmente la via d'uscita. Avevano concordato con lei di trovarsi in Piazza del Duomo. A Guido non sembrava una buona idea, non voleva allarmare la folla che perennemente si trovava là. Forse, però, era proprio questo che Hava voleva: denunciare suo padre davanti a tutti. Potrebbe essere una trappola, sussurrò una voce nella sua testa. Era un ipotesi del tutto plausibile eppure Guido, ancora una volta, decise di fidarsi di lei.
Richter e Giulia si erano recati verso la stazione di polizia, mentre lui si stava dirigendo nel luogo dell'appuntamento. Le gambe gli duolevano per aver camminato tanto.





9.
Il Vogue era dietro di lui. La sua avanzata era uno stridio di ingranaggi che collaboravano fra loro per dar vita alla più pericolosa invenzione di tutti i tempi, ed era solo colpa sua. Stava correndo per le strade di Milano per evitare di essere uccisa. Il panico non era ancora dilagato  per la città perché aveva percorso solo strade isolate ma, si rese conto con orrore, che si stava dirigendo verso piazza del Duomo. Doveva assolutamente trovare Guido. Aveva con sé lo strumento per distruggere quella maledettissima macchina ma non sapeva come utilizzarlo. Aveva l'infondata speranza che lui sapesse come adoperarlo. Si voltò indietro e ancora una volta si stupì che un oggetto, all'apparenza così enorme, potesse percorrere le strette vie di Milano, infilandosi fra alti palazzi polverosi e coperti di murales. Nella sua corsa distruttrice, il Vogue, sdradicava tutto ciò che gli impediva il cammino. E più avanzava più diventava forte. Non poteva credere che suo padre avesse scatenato contro di loro una macchina tanto malvagia e pericolosa.
Improvvisamente si trovò in piazza. Migliaia di persone riunite in un unico luogo. Migliaia di persone destinate ad un unico destino. Tutto ciò era accaduto perché si era fatta incantare. Prima dalle idee di suo pare e poi da quell'uomo che era entrato nella sua vita solo il giorno prima. Lo cercò fra la folla. Era seduto, non molto distante da lei, sulla statua del leone che si trovava quasi al centro della piazza. Si dice che, prima di morire, si rivivano i momenti più importanti  della propria vita, ma Hava vide solo il sorriso spontaneo e sincero che Guido le aveva rivolto poco prima che il Vogue segnasse la loro fine.





EPILOGO
Giulia non si trovava in piazza quando accadde “la sfortunata fuga di gas che aveva ucciso centinaia di persone”. Così l'avevano descritta i giornali. Una fuga di gas. La piazza era distrutta. Buona parte degli edifici era crollata. Solo il Duomo resisteva, praticamente intatto, quasi a voler confortare la popolazione di tutto il mondo che aveva assistito a quell'orribile catastrofe. I corpi dei morti erano stati rimossi, così come buona parte delle macerie. Non sapeva dove fosse il Vogue né che fine avesse fatto il professor Jadid. Non le importava. Teneva fra le mani un oggetto freddo e metallico, a forma di sfera. La sua superficie liscia era interrotta da un unico bottoncino verde. Totalmente inutile dato che non era riuscito a fermare la fatale macchina. Esaminando meglio ciò che aveva in mano, però, Giulia scoprì un'altra intaccatura. Era una minuscola rientranza dalla forma esagonale. Tirò fuori dalla tasca la moneta che un uomo vestito di nero le aveva donato mesi prima. La inserì nel solco che si rivelò pronto ad ospitarla. Poi premette il pulsante, sicura che questa volta avrebbe funzionato. Ma non accadde nulla, non c'era più niente da distruggere. Giulia cominciò a ridere istericamente ascoltando l'eco della propria voce che risuonava nella piazza vuota.


giovedì 11 maggio 2017




É NERA LA LUCE
DI LINDA SEIDENARI
Londra, 1878
Il gatto balzò giù dall'albero vicino al Tamigi e si avvicinò all'acqua torbida. In esso la luce del sole mattutino, coperto a malapena dalle nuvole, veniva riflessa producendo sfumature verdognole. L'aria intorno a lui era silenziosa e pacifica, gli unici suoni che gli giungevano alle orecchie erano quelli lontani degli zoccoli dei cavalli, che tiravano le carrozze in giro per il centro della città e il vociare di qualche mendicante di strada.
Si fece coraggio e si specchiò sulla superficie del fiume: si vide strano. Si sarebbe aspettato di somigliare agli umani, e invece non sapeva chi fosse. Si avvicinò meglio all'acqua rischiando quasi di caderci dentro.
Era incredibile, non aveva mai provato un'emozione simile: era come se fosse lì ma non del tutto presente, come se fosse lui ma non per davvero.
Si sentiva totalmente estraneo a quel corpo, quasi ci fosse qualcosa di sbagliato. Si ammirò le orecchie pelose e appuntite e le vibrisse che spuntavano dalle guance, e questo non fece che aumentare la sua sensazione di disagio.
Mentre stava prendendo in considerazione l'idea di andarsene, il gatto rosso avvertì un urlo agghiacciante alle sue spalle. Si voltò di scatto piantando gli artigli nel terreno ma la strada poco affollata dietro di lui era silenziosa.
Poi lo avvertì di nuovo, ora incessante, provenire dal lago. Quel suono lo circondava perforandogli i timpani e impedendogli di capire quale fosse la fonte. Fu quando cercò di isolarsi dal mondo che si rese conto del fatto che l'urlo non provenisse dall'esterno, ma fosse dentro la sua testa.
E allora il gatto scomparve.

CAPITOLO 1
Ride delle cicatrici colui che non è mai stato ferito.
-William Shakespeare-

«Hai preparato il caffè? Si sente il profumo per tutta la casa.» disse la ragazza entrando nel salotto con fare altezzoso, facendo ticchettare i tacchi delle sue scarpe sul pavimento appena lucidato.
«Sì sono andata a comprarlo stamattina al mercato, signorina Jessamine. Era a buon prezzo, così...» le rispose la domestica alzando lo sguardo dal mobile in legno pregiato che stava spolverando.
«Hai fatto benissimo, infatti. Credo che più tardi ne berrò volentieri una tazza. Non ora però perché sto uscendo.» disse Jessamine raggiungendo l'attaccapanni, e mentre si infilava il cappotto aggiunse  con un lieve sorriso: «Dovresti smetterla si spolverare sempre, Lorrie. Questa casa è troppo pulita.»
«É il mio lavoro.» balbettò la giovane donna riponendo lo straccio.
«Certo, e lo fai sempre molto bene.» concluse la padrona di casa muovendo la testa in cenno di saluto. Sembrava avesse molta fretta di andarsene.
«Aspetti!» esclamò Lorrie. «Poco fa l'ho sentita urlare davvero molto forte signorina e mi chiedevo se fosse successo qualcosa.»
Jessamine si bloccò nel vano della porta e guardando la sua domestica sospirò: «Sì lo so, ho avuto uno dei miei soliti incubi. Per questo esco: Ho bisogno di schiarirmi le idee.» e detto questo si precipitò fuori prima che la ragazza potesse risponderle.
Appena si ritrovò all'esterno venne travolta da una ventata d'aria fredda che le fece svolazzare la gonna, facendole tremare le gambe. La ragazza decise di imboccare a passo svelto Charing Cross Road, per arrivare nel centro vero e proprio della città, dove forse avrebbe trovato qualche distrazione dai suoi pensieri.
Mentre percorreva quella larga via si accorse che entrambi i lati erano gremiti di bancarelle del mercato che pullulavano di gente, la quale gli ronzava accanto come api attorno ad un'alveare.
Jessamine capì che anche se avesse voluto vedere la merce esposta sui banchi non ci sarebbe riuscita, poiché la folla era troppa. Così decise di proseguire per la sua strada sperando di arrivare abbastanza velocemente al St. James Park, dove avrebbe trovato un clima più pacifico.
Man mano che avanzava, si rese conto che i banchetti si diradavano pian piano lasciando spazio ad una visuale diversa: alcune carrozze passavano trainate da cavalli al centro della carreggiata, facendo partire schizzi di fango dalle pozzanghere per terra, mentre sedute sul marciapiede, appena nascoste dalle ombre delle case, erano ammassate le moltissime persone che non avevano nessun altro posto dove andare. L'aria inoltre era umida e odorava di polvere e pioggia, segno che probabilmente presto sarebbe piovuto.
Mentre rifletteva a sguardo basso con i capelli castani mossi dal vento, fu catturata da un suono che la obbligò ad alzare immediatamente lo sguardo.
Sorpassando una signora che andava in direzione opposta alla sua con in testa un grosso cappello a banda larga, intravide poco davanti a lei la fonte della melodia.
C'era un ragazzo in piedi rivolto immobile verso la strada che sembrava fissare il vuoto con aria assente. Avvicinandosi incuriosita Jessamine notò che in realtà il ragazzo stava suonando un violino e aveva gli occhi chiusi, con il viso contorto in una smorfia concentrata. Era molto bravo e non sbagliava nemmeno una nota mentre produceva la sua canzone dall'aria leggera e spensierata.
Completamente catturata dalla melodia, si mise ad osservare meglio i tratti del suo viso: le parevano stranamente famigliari.
Anche i capelli, neri come la pece e arricciati lievemente sulla nuca, li aveva già visti addosso ad un'altra persona ma in quel momento, per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare a chi.
Stava ancora fissando intensamente quel ragazzo quando lui si mosse, scostandola dai suoi pensieri e riportandola alla realtà. Lui suonò l'ultima lunga nota e poi, staccando l'archetto dal violino, lo abbassò. Aveva ancora gli occhi chiusi e Jessamine decise di spostare lo sguardo per non sembrare indiscreta, ma quando lo risollevò il ragazzo la stava già fissando. I loro occhi si incrociarono e fu allora che lei, spalancando la bocca per la sorpresa, capì chi avesse davanti. Eppure era impossibile.
Non poteva essere lui.
Come immobilizzata dentro una lastra di ghiaccio trovò la forza di sussurrare quel nome che non pronunciava ormai da tre anni: «Alåen.»
Il ragazzo, che fino ad ora era stato zitto ad osservarla incuriosito le si avvicinò, e poi le tese la mano: «Veramente sono James, piacere di conoscerla.»
Lei non rispose. Era lui, aveva anche la stessa voce, ma era impossibile…
«Si sente bene? La mia musica, forse, non le è piaciuta?» le chiese il ragazzo. Pareva sicuro di sé, e sotto l'espressione preoccupata sembrava tenesse nascosto un sorriso.
«Come hai detto di chiamarti?»
«James. James Evans.» rispose con un accento londinese molto marcato.
Jessamine ancora una volta non disse nulla. Non poteva chiamarsi James. Lui era Alåen. Era lì davanti a lei, e avrebbe voluto abbracciarlo e chiedergli dove era stato tutto quel tempo, ma lui la fissava preoccupato e confuso.
«Scusa, devo avere sbagliato persona. Credevo fossi un altro.» balbettò facendo qualche passo indietro per allontanarsi dal ragazzo. Poi, ancora sconvolta, si voltò verso la via che aveva appena percorso e iniziò a correre, tenendo sollevata la gonna per non inciampare. Alåen le urlò di fermarsi ma lei non lo fece, voleva solo tornare a casa.

Quando qualche minuto dopo intravide finalmente i muri bianchi in stile vittoriano della sua villa fece un sospiro di sollievo e si precipitò subito dentro. Fortunatamente Lorrie aveva ascoltato il suo consiglio e aveva smesso di spolverare, così ora il grande salotto era vuoto e silenzioso.
Jessamine salì gli scalini di marmo per arrivare alla sua stanza, dove entrò con una tensione quasi febbrile.
Andò subito ad aprire il cassetto del suo comodino con mani tremanti: ciò che cercava era lì nel solito posto. Prese in mano la fotografia e si ritrovò a guardare due volti che le sorridevano felicemente. Una era lei, con addosso un abito da cerimonia pieno di pizzi e merletti, e di fianco c'era lui, Alåen, che la abbracciava dolcemente e sembrava la persona più felice della terra.
Ricordando quel giorno le venne da piangere, perché esattamente cinque giorni dopo il suo amato fratello era morto, lasciandola sola.
E oggi invece l'aveva rivisto. Quel ragazzo, James, era il suo Alåen.
Sussurrando il suo nome ancora una volta, Jessamine si lasciò cadere sul letto, stringendo la foto al petto e iniziando a piangere.



CAPITOLO 2
Se l'anno passato potessi rivivere
E scegliere dovessi tra il Bene e il Male,
Accetterei il piacere insieme alla pena,
O ardirei desiderare che non ci fossimo mai incontrati?
-Augusta, Lady Gregory, Se l'anno passato potessi rivivere-

19. Un numero apparentemente casuale e senza senso. Eppure erano proprio diciannove gli anni che aveva appena compiuto suo fratello prima di morire. Accadde una settimana dopo il suo compleanno. Quel giorno Alåen si era alzato presto ed era uscito a fare uno dei suoi soliti sopralluoghi in una delle fabbriche di famiglia, per controllare che il lavoro degli operai procedesse bene, ma di fatto poi non uscì più da quel posto. Nemmeno il suo corpo venne più ritrovato, bruciato nell'incendio.
La sua famiglia da molti anni vendeva prodotti tessili che venivano realizzati nelle varie fabbriche sparse per Londra. Erano almeno cinque in tutta la città ed erano caratterizzate dall'insegna color giallo senape con la scritta “Cavendish's Group”, che ricordava le etichette presenti sulle lattine del cibo in scatola.
Avendo tre anni in meno del fratello, a quei tempi Jessamine era una sedicenne. Aveva ben impresso nella mente il ricordo di quel mattino: Alåen era uscito presto di casa e poi, circa un'ora dopo, se ne era andato anche suo padre, probabilmente a fare una passeggiata diretto dal giornalaio per leggere le notizie più interessanti della giornata.
Jessamine invece era rimasta a casa sotto il controllo di quella che era la loro vecchia e scorbutica governante, con la mania per le parrucche color bianco avorio e la fobia degli uomini del servizio postale. Lei e suo fratello si divertivano moltissimo da piccoli a spiarla e vederla sbiancare quando il postino arrivava per consegnare delle lettere.
Sorridendo malinconica per quel ricordo, Jessamine rivolse il viso verso il cielo chiudendo gli occhi e lasciando che i raggi del sole pomeridiano le scaldassero la pelle. Erano ore che se ne stava seduta su una panchina sotto un salice di Hyde Park, a osservare le persone che passavano e immaginando dove stessero andando.
Talvolta era bello concentrarsi sulla vita di un perfetto sconosciuto pur di dimenticare per qualche minuto la propria. Ma quel giorno dimenticare sembrava davvero impossibile. Jessamine era dal giorno precedente che aveva un unico pensiero fisso in testa e ora la situazione era persino peggiorata. Infatti, dopo che aveva superato ad un giorno e mezzo di distanza lo shock iniziale dell'incontro con quel musicista, la sua mente si era affollata di interrogativi a cui, per ora, non era riuscita a dare una risposta.
Come poteva quel ragazzo essere Alåen, se era stato dichiarato morto? E invece, ponendo il fatto che non fosse suo fratello, come poteva essergli così simile, al punto da apparire uguale?
Per lei era frustrante non sapere la risposta a quelle domande. Si alzò meccanicamente dalla panchina e si avvicinò ai lunghi rami del salice, prendendone uno tra le dita e iniziando a staccare con poca attenzione le piccole foglioline che lo rivestivano.
Proprio in quel momento passarono davanti a lei un bambino e un uomo molto alto, che lo tratteneva per un braccio. Sembrava arrabbiato e infatti poco dopo esclamò, strattonando il bimbo:
«Smettila di piangere!»
Inevitabilmente Jessamine ritornò con la mente ancora una volta a quel giorno di tre anni prima, quando quella frase era stata detta anche a lei.
Alåen dopo essere uscito per fare l'ispezione alla fabbrica non era più tornato, ormai era sera, e lei e sua madre, mentre la governante preparava la cena, si erano dette che suo fratello e suo padre dovevano essersi incontrati ed essere andati in un pub a bere della birra, come erano soliti fare quando avevano bisogno di passare il tempo in un ambiente da soli uomini.
Mezz'ora dopo suo padre era rientrato in casa coperto di cenere dalla testa ai piedi e con il viso incredibilmente serio però, aveva notato subito Jessamine, era solo.
Allora lei gli si era avvicinata incerta, avendo già capito che era successo qualcosa di grave, ma dato che l'uomo non sembrava avesse intenzione di parlare gli aveva chiesto, a voce bassa: «Padre, dov'è Alåen?»
Suo padre l'aveva guardata, le aveva toccato la spalla, e spostandola delicatamente l'aveva sorpassata andando verso le scale che portavano al piano di sopra. Poi però sul primo scalino si era fermato e senza voltarsi aveva detto, con voce spenta: «C'è stato un incendio oggi nella fabbrica di Aldgate. Alåen era lì dentro. Quando l'ho scoperto sono corso là, sperando di trovarlo vivo. Non ci sono superstiti.»
E dopo quella frase non aveva detto più nulla. Non si era nemmeno voltato per darle quella notizia, non l'aveva nemmeno guardata in faccia.
E ora erano passati tre anni, eppure lei ancora si chiedeva che faccia avesse fatto suo padre, mentre diceva che suo figlio era morto.
Mandando giù il groppo fastidioso che le si era formato in gola e tornando alla realtà, osservò il ramoscello che aveva in mano che ormai appariva completamente nudo e capì che c'era una sola cosa che doveva fare: avrebbe ritrovato il violinista solitario e avrebbe indagato su di lui.
Allontanandosi dal salice e dirigendosi con passo deciso verso l'uscita del parco, sperò in cuor suo che il ragazzo si trovasse nello stesso posto in cui era il giorno prima.

CAPITOLO 3
Pur se la mia anima tramonterà
nelle tenebre, risorgerà in piena luce
Ho amato troppo le stelle
per avere paura della notte.
-Sarah Williams, Il vecchio astronomo-

Stava tramontando il sole quando, con sollievo, Jessamine trovò il musicista. Indossava la stessa camicia a quadri del giorno precedente e in quel momento stava riponendo il suo violino in una grossa borsa nera.
Anche dalla distanza alla quale lo stava osservando la ragazza notò che la somiglianza con Alåen era sconvolgente, al punto da lasciarla senza fiato.
Ci aveva messo un po' di tempo a trovarlo poiché quel giorno per suonare si era posto strategicamente ad un incrocio tra un ristorante d'alta classe e un negozio di libri. Mentre Jessamine aveva la mente persa nelle sue fantasticherie il ragazzo si era già caricato la borsa sulla spalla e aveva iniziato ad allontanarsi, dileguandosi tra la folla. Allora lei iniziò a correre nella direzione presa da lui e quando gli fu dietro di qualche passo esclamò: «James! Fermo, aspetta!»
Lui si fermò e si voltò perplesso, ma quando la vide le si avvicinò.
«Tu sei la ragazza di ieri, vero? Quella che continuava a chiamarmi con un nome strano. Albert? Abel?»
«Alåen.» lo interruppe lei spazientita.
A sentir pronunciare quel nome gli occhi del ragazzo si illuminarono di un bagliore improvviso, ma scostò lo sguardo così velocemente che le impedì di decifrarlo. Poi iniziò a frugare con una mano nella tasca sinistra dei suoi pantaloni, dalla quale tirò fuori una sigaretta rovinata. Solo quando l'ebbe accesa riprese a parlare: «É evidente che sei qui perché mi stavi cercando. Ed è altrettanto evidente che abbiamo lasciato da parte ogni formalità. Ieri sei scappata così velocemente che non mi hai nemmeno dato la possibilità di invitarti a mangiare qualcosa, ma ora vorrei rimediare: mi permetti di accompagnarti in un ristorante?»
Jessamine lo osservò incuriosita emettere uno sbuffo di fumo dalla bocca che si disperse velocemente nell'aria.
«Non ti sono venuta a cercare senza un motivo. Ho un bisogno urgente di parlarti, ma qui, per strada in mezzo alla gente non mi è possibile.»
«Quindi accetti il mio invito?»
«Sarò costretta a farlo, ma non montarti la testa. Verrò con te solo perché ho bisogno di risposte.»
E perché sei maledettamente uguale a mio fratello.” aggiunse il suo subconscio, ma lei lo ignorò.
James sorrise in maniera un po' beffarda e porse educatamente il braccio alla ragazza.
Lei lo prese e i due si incamminarono verso Pall Mall street, la via delle belle arti di Londra e dei locali da gentiluomini.
«Spero che il posto dove andremo sarà di tuo gradimento. Ah, non aspettarti un ristorante con i lampadari di diamante perché non avrei i soldi per pagare nemmeno una fetta del loro pane.» annunciò James dopo qualche minuto di silenzio. Non sembrava avesse vergogna ad ammettere di aver pochi soldi in tasca, anzi, pareva accettasse senza problemi la sua condizione.
Jessamine alzò lo sguardo per osservare il suo viso sereno illuminato dalla tenue luce del sole che scendeva all'orizzonte. Era bello, proprio come lo era stato Alåen.
Rispondendo come avrebbe risposto a lui disse: «Per questa volta cercherò di accontentarmi, ma la prossima volta mi aspetto di essere portata come minimo ai ricevimenti di Buckingham Palace.»
«Pretenziosa la ragazza, di cui però ancora non so il nome. Con chi ho il piacere di parlare?»
«Jessamine Cavendish, imparentata con i gran duchi.»
James si bloccò di scatto e spalancò gli occhi: «Oh, allora sei proprio una persona importante. Desideri che mi inchini ai tuoi piedi?»
L'espressione fiera sul viso della ragazza si spense, trasformandosi in un espressione divertita: «Non prenderti gioco di me e sbrighiamoci ad arrivare al ristorante. Vorrei essere a casa prima che faccia troppo tardi.»
Pochi minuti dopo i due stavano entrando in un piccolo ristorante incastrato tra un negozio di pellicce e un calzolaio, in una laterale di Pall Mall. Si chiamava “Wiltons Restaurant” e sulla facciata presentava una grossa insegna circolare con inciso il nome del ristorante e sotto “since 1742”.
Attraverso una piccola vetrata polverosa si intravedeva la gente che consumava la sua cena.
Appena misero un piede dentro Jessamine avvertì subito il travolgente odore di pesce che le punse il naso, mischiato a quello di birra e frittura.
La sala che avevano davanti era piccola e i tavolini, ai quali erano seduti i clienti che assaporavano piatti di ogni tipo, erano tutti ammassati uno vicino all'altro.
James la osservò mentre una cameriera con un grembiule verde gli indicava dove sedersi e le disse a voce alta, per sovrastare il chiacchiericcio presente nella sala: «Non fare quella faccia. Non sarà un posto lussuoso, ma ti assicuro che il cibo è buonissimo.»
Lei sorridendo appena sollevò la gonna per evitare che toccasse il pavimento sporco e poi andò ad accomodarsi insieme a James nel tavolo che avevano assegnato loro.
Ordinarono la stessa portata contenente pudding e pesce alla griglia, e poi mentre attendevano ripresero a parlare.
«Allora, sono proprio curioso di sapere perché una nobile signorina quale sei tu abbia bisogno di me.» disse James appoggiandosi comodo allo schienale della sedia.
Lei prese fiato per parlare ma poi, osservandolo, si rese conto di non sapere da dove cominciare. Così disse semplicemente: «Tu sei uguale a mio fratello, che si chiama Alåen. Siete così identici che ieri, quando ti ho visto suonare, ho creduto davvero che fossi lui e non ho ancora del tutto cambiato idea. Anche se mi hai detto più volte di chiamarti James...»
Il ragazzo la interruppe. Si era sporto in avanti appoggiando i gomiti sul tavolo: «Che cosa intendi con la frase “non ho ancora del tutto cambiato idea”?»
«Che penso ancora che tu sia mio fratello.»
James la guardò allibito: «Scusa ma non ti intendo. Come posso essere tuo fratello se non ci siamo mai visti prima? E poi se tuo fratello si chiama Alåen...»
«Lui è morto. Per questo per me è stato così sconvolgente incontrarti ieri. Sono tre anni che cerco di superare questa storia e poi mi ti presenti davanti tu. Sei talmente simile a mio fratello che per me è ancora incredibile averti davanti e ti giuro, sto sperando che adesso tu mi dica che sai chi sono, che mi riconosci, e ammetti di essere Alåen.»
Il ragazzo scostò lo sguardo dal suo per mettersi ad osservare le venature del tavolo e poi schiarendosi la gola e grattandosi la nuca annunciò, lievemente a disagio: «Mi dispiace. Vorrei poterti dire di aver incontrato tuo fratello per affermare io stesso la mia somiglianza con lui, ma purtroppo non ho mai conosciuto e né conosco qualcuno di nome Alåen. Non è un nome molto comune qui a Londra, me ne ricorderei.»
«Okay, ma sarai d'accordo con me che essere uguali ad una persona morta è una cosa alquanto bizzarra.» sostenne Jessamine.
«Magari siamo solo molto simili, sai ci sono i sosia nel mondo, e la mancanza che provi per lui mi fa apparire ai tuoi occhi uguale perché hai voglia di rivederlo.»
«Mi credi una pazza.» disse la ragazza seria, ma in quel momento arrivarono i loro piatti quindi smisero di parlare per iniziare a mangiare. Dopo aver mandato giù qualche boccone dovette ammettere a se stessa che James aveva ragione: il cibo non era davvero niente male.
«Allora, James, almeno raccontami qualcosa di te: la tua vita, la tua storia.»
Il ragazzo alzò gli occhi dal piatto e annuì: «Sono nato nelle campagne londinesi in una famiglia che nemmeno un giorno nella vita ha avuto abbastanza da mangiare. La casa dove vivevo era piccola, ma il posto era molto bello, sconfinato nella natura della brughiera.
Sono figlio unico. Mia madre quando avevo solamente tre anni si è ammalata così non ha più potuto avere altri figli. Naturalmente non sono mai andato a scuola. All'età di undici anni ho iniziato a lavorare in miniera dove lavorava mio padre per portare qualche soldo in più a casa. Facevo turni pesantissimi e mia madre piangeva sempre perché diceva che se avesse avuto la possibilità di fare un altro figlio io avrei dovuto lavorare di meno.» James socchiuse gli occhi, che ora erano diventati malinconici.
Mentre raccontava, Jessamine lo osservava attentamente e per la prima volta da quando lo aveva incontrato la ragazza notò delle differenze in lui da Alåen: un piccolo neo vicino al sopracciglio, una strana cicatrice sulla mano destra, e il suo modo di sollevare solo un angolo della bocca per sorridere. E allora capì che il ragazzo davanti a lui non era suo fratello: gli assomigliava terribilmente, ma non era lui.
Poi James riprese a parlare in un sussurro: «Sai, quando ogni giorno per sopravvivere hai un unica possibilità di scelta, non ti soffermi a sperare in una vita migliore, soprattutto perché non ci credi.
Ma a diciotto anni capii che non volevo restare lì per sempre. Così mi trasferii qui in città a suonare il mio violino, l'unica cosa che davvero posseggo e di cui vado orgoglioso.
All'inizio restavo solo nelle vie di Londra, poi un giorno dello scorso anno ho deciso di partire e uscire dalla città. Ho iniziato a viaggiare: prima sono andato a Parigi, poi in Italia e in altri paesi d'Europa. Ora sono tornato per poco a Londra, per portare un po' di soldi ai miei genitori che sono ancora in campagna, ma presto ripartirò per una nuova meta.» concluse il ragazzo.
Jessamine ebbe inevitabilmente una fitta al cuore sentendo pronunciare quell'ultima frase: «Quindi sei un viaggiatore. Ora capisco perché non ti avevo mai visto nelle strade di Londra prima d'ora. E quando hai intenzione di ripartire?»
«La settimana prossima. Non resto mai più di due settimane nelle città in cui vado.»
«Ma è prestissimo!» esclamò Jessamine a voce troppo alta, attirando sguardi indispettiti dai clienti dei tavoli di fianco. Si scusò e poi aggiunse a voce più bassa, allungandosi sul tavolo verso James: «Non volevo essere indiscreta. É solo che, anche se ora mi sto convincendo che non sei mio fratello, sento dentro di me che tra te e lui c'è un legame che però ancora non riesco a spiegare. Capisci anche tu che tutto questo è troppo strano per essere una semplice coincidenza, e io voglio scoprire la verità. Speravo solo di ottenere anche il tuo aiuto, ma se riparti così in fretta non credo ci sia abbastanza tempo.»
James non rispose e continuò a fissarla intensamente negli occhi.
«Ho capito non hai intenzione di aiutarmi. Del resto è comprensibile, i miei problemi non avrebbero motivo di interessarti.» concluse Jessamine con tono piatto alzandosi dalla sedia.
«Non ho detto che non voglio aiutarti. Penso solo che questa storia sia una follia, ma se ci tieni non posso dirti di no. Che gentiluomo sarei?» disse il ragazzo invitandola a risedersi.
«Quindi mi aiuterai! Non sai quanto te ne sia grata!» esclamò lei su di giri e poi aggiunse: «Significa che ti tratterrai di più in città?»
«No, i miei piani non cambiano. La settimana prossima partirò. Ma vedila in questo modo: avrai una settimana di tempo per risolvere questo caso.» le disse James sfoderando un ampio sorriso.
«D'accordo, ma ora sbrighiamoci a pagare. Si è fatto tardi e prima che tu vada a dormire voglio che tu venga con me.»
Lui la guardò perplesso: «E dove andiamo?»
«A casa mia. Voglio mostrarti una cosa, dato che ho capito che ancora non mi credi.» spiegò Jessamine.
Dopodiché James andò a pagare la cena di entrambi con i pochi spiccioli che aveva, poi i due ragazzi uscirono nel buio, diretti alla casa della ragazza.
«Mi rendo conto solo ora che sto mostrando dove si trova casa mia ad uno che conosco a malapena. Potresti essere un malintenzionato.» affermò Jessamine mentre camminavano.
James scoppiò a ridere e disse: «Se domani sera vieni derubata sai di chi è la colpa.»
Alcuni minuti dopo la ragazza stava infilando la chiave nella serratura.
«Tu aspetta qui, torno tra un attimo. E se compare una domestica dille che sei ospite mio.»
Speriamo di no, altrimenti a quest'ora chissà cosa penserebbe!” si disse James tra se e se, e poi prese ad osservare i numerosi quadri attaccati alle pareti della sfarzosa villa.
Erano tutti circondati da grosse cornici dorate e la maggior parte raffigurava paesaggi di mare.
Mare in tempesta, spiagge sabbiose, onde che si infrangono su alte scogliere.
«Eccomi.» disse Jessamine ricomparendo nel salotto.
Il ragazzo si voltò verso il suono della sua voce e la vide che stava scendendo da una grande scala in marmo.  Teneva stretto qualcosa nella mano, all'apparenza un foglietto di carta o un ritaglio di giornale.
Quando gli fu vicino disse con voce pacata: «James, vorrei che guardassi questa fotografia.» e poi gliela porse.
Lui prese in mano quello che aveva creduto un pezzo di carta e lo osservò. C'erano due soggetti che guardavano nella sua direzione e sorridevano, come a prendersi gioco di lui.
James restò di sasso. Si avvicinò di più la foto agli occhi e poi spalancò la bocca, sorpreso: «Ma è impossibile! Questo sono io!»

CAPITOLO 4
Il mio cavallo trova forse strano
che io sosti ove non c'è casa all'intorno,
tra i boschi e il lago coperti di ghiaccio
nella sera più buia dell'anno.
Fa tinnire i sonagli delle briglie,
quasi a chiedermi se sto sbagliando.
Non c'è altro suono, fuori del fruscio
del vento lieve e dei fiocchi che cadono.
Profondi e scuri sono i boschi e belli,
ma ho promesse da mantenere
e miglia da percorrere, prima di dormire,
e miglia da percorrere, prima di dormire.
-Robert Frost-

Il paesaggio fuori dal finestrino si stava trasformando, lasciandosi indietro le case della città per dare spazio al verde della campagna. James era in una delle carrozze del treno destinata ai passeggeri di seconda classe, quale era lui, e contemplava assorto nei suoi pensieri la brughiera che sfrecciava veloce davanti ai suoi occhi. Non aveva con se un biglietto che gli permettesse di restare su quel treno, così tutte le volte che avvertiva un rumore di passi nel corridoio si voltava inquieto, sperando di non incrociare gli occhi del controllore.
Non era solo nella carrozza. C'era una donna sulla trentina che lo osservava insistentemente attraverso la visiera di un Poke Bonnet sciupato e aveva sulle ginocchia un bambino dai capelli biondissimi e il viso scavato dalla fame.
Poi, esattamente di fronte a lui, c'era un uomo adagiato sul sedile come fosse un letto, che aveva un cappello marrone calato sugli occhi e una pipa in bocca. Sembrava addormentato ma era solo un'impressione poiché ogni tanto alzava pigramente una mano per togliersi la pipa dalla bocca e liberare in aria una nuvola di fumo.
James si strinse nel suo spolverino da viaggio, unica giacca che possedesse, e lasciando che la sua testa si abbandonasse all'indietro cadde nel torpore del sonno.
Venne svegliato mezz'ora dopo da un forte scampanellare e dalla voce del capostazione che urlava: «Ultima fermata! Siamo a Dartmoor! Tutti i passeggeri sono pregati di scendere!»
James ancora assopito si guardò intorno e si accorse di essere rimasto solo nella carrozza.
Raccogliendo la sua borsa nera da terra e uscendo nel corridoio, si affrettò a scendere dal treno.
La stazione ferroviaria nel quale era arrivata era piccola e rudimentale, ed aveva un unico binario, quello sul quale era arrivato il treno da Londra.
Individuando la piccola uscita, il ragazzo si affrettò in quella direzione. Appena si ritrovò all'esterno provò immediatamente un forte senso di libertà misto a smarrimento dovuto all'immensità del luogo in cui si trovava. Infatti tutt'attorno a lui e al piccolo edificio della stazione non si estendeva altro che campagna. Solamente prato, fiori e campi di grano che proseguivano per chilometri all'orizzonte.
James con un sospiro si caricò la borsa in spalla e si incamminò verso il sentiero che l'avrebbe condotto, di lì a qualche ora, nella casetta dei suoi genitori.
Durante il lungo tragitto furono poche le persone che incontrò, solo due contadini trasandati che parlottavano tra loro nel dialetto aspro del luogo. Erano probabilmente senza denti poiché la voce usciva sibilata dalla loro bocca, rendendo ciò che dicevano ancora meno comprensibile.
Il ragazzo li aveva sorpassati velocemente, sempre diretto verso la casa dove aveva vissuto la sua infanzia e dopo circa quattro ore, quando ormai il sole del mezzogiorno era alto nel cielo, finalmente era arrivato davanti alla porta.
Prendendo una boccata d'aria per calmare il leggero nervosismo che stava iniziando a provare, bussò leggermente sul legno rovinato. Poco dopo la porta si aprì, e sulla soglia si venne a trovare una donna. Era bassa, un po' gobba e indossava sulle spalle uno scialle di lana dall'aria molto pesante, benché non facesse particolarmente freddo. Appena ebbe sollevato lo sguardo su di lui gli occhi le si riempirono di lacrime e James non fece in tempo a dire nemmeno una parola che lei l'aveva già stretto a se in un abbraccio disperato.
«Mio figlio! Mi sei mancato così tanto. Sei tornato, sei tornato!» e poi senza mollarlo continuò a ripetere la stessa frase fino a quando le sue lacrime non furono esaurite.
Tutte le volte accadeva così.
La madre, da quando era malata, dimenticava la maggior parte delle cose che le accadevano, così per lei era sempre come se suo figlio la tornasse a trovare per la prima volta.
Accarezzandole dolcemente la schiena e continuando a tenerla stretta James le sussurrò, chiudendo gli occhi: «Mi sei mancata anche tu mamma.»

*****

«Quante ne desidera signorina? Otto?»
«No, ne prendo solamente cinque, grazie.» disse Jessamine alla ragazza dietro al bancone, che le impacchettò le frittelle di mele in una confezione.
«Si figuri, buona giornata!» rispose la commessa con un caloroso sorriso appena lei ebbe pagato.
Dopo essere uscita da quella che era considerata la migliore pasticceria di Londra, Jessamine si diresse verso il quartiere di Notting Hill, dove si trovava l'enorme villa dei suoi genitori.
In mezzo a due ville altrettanto belle, la casa della sua famiglia svettava come un castello. Era circondata tutt'attorno da un rigoglioso giardino che la faceva apparire come una delle dimore descritte nelle favole per bambini, il quale era stato premiato per quattro anni di fila come giardino più bello della città.
La ragazza, prima di venire a trovare i genitori come faceva di rado era passata a comprare il dolce preferito di sua madre, per mantenere l'usanza famigliare.
Arrivata davanti al grosso cancello in ferro attraverso il quale poteva intravedere una grande fontana, suonò il campanello e attese che qualcuno le venisse ad aprire.
La porta laccata di nero della villa si socchiuse e una donna con una cuffia bianca in testa esclamò: «Chi è là?»
«Sono Jessamine, apritemi.» disse la ragazza alla governante, che la riconobbe e venne a spalancarle il pesante cancello abbastanza per farla entrare.
«Buongiorno, come mai qui in visita?» le chiese la donna mentre entravano in casa.
«Ho bisogno di parlare con i miei genitori, Chantal, mi sai dire dove posso trovarli?»
Chantal scosse la testa raggrinzendo le sue piccole labbra sottili e poi disse: «Ora i padroni non sono in casa. Sono usciti poco fa per andare ad un importante ricevimento e non torneranno prima di stasera.»
Jessamine sospirò e poi lasciò nelle mani della donna il pacchetto con le frittelle di mela, la quale si diresse verso la cucina.
«Gliele farò avere al loro ritorno.» disse Chantal indicando la confezione dei dolci.
La ragazza la seguì e fermandola per una spalla le disse: «Ho bisogno di aiuto. Devo fare alcune domande importanti ai miei genitori, ma dato che non ci sono loro le farò a te. Tu hai sempre vissuto in questa casa, saprai sicuramente le risposte.»
«Di che si tratta?» le chiese la governante osservandola con diffidenza.
«Devi dirmi tutto ciò che sai sulla nascita di mio fratello Alåen.»
Chantal si portò una mano alla bocca e poi sussurrò, con gli occhi spalancati: «Lei signorina era venuta a trovare i signori Cavendish per parlare a loro del signorino! Sapete bene che per i padroni questo argomento è motivo di immenso dolore!»
«Sono i miei genitori, Chantal. Inoltre non solo per loro questa faccenda è motivo di dolore, ma non per questo Alåen deve essere dimenticato. Dunque cosa ricordi di lui?»
La governante abbassò lo sguardo verso il pavimento e mosse un poco su e giù le punte dei piedi, poi rialzando gli occhi disse, con la voce che le si era abbassata di diverse note: «Sono passati tanti anni...io non ricordo nulla.»
«Non ricordi nulla, ma per favore! Come si dimentica la nascita del figlio dei propri padroni? Eh, come si dimentica?» esclamò Jessamine agitando furiosamente le mani. Poi a tono ancora più alto aggiunse: «Chi è stato a chiederti di tacere? Sono stati loro, vero? I miei genitori ti hanno chiesto di tenere la bocca chiusa o ti avrebbero buttato fuori, non è così? Rispondi, Chantal!»
Ma la governante si era già allontanata dalla ragazza irata con sguardo spaventato e si trovava già sulle scale per andare al piano superiore quando disse, intimidita: «Io non so nulla, nulla capisce? Le conviene andar via. Sono solo la governante e i padroni non ci sono. Se ne vada, è meglio, se ne vada.» e mentre continuava a pronunciare quelle parole agitava le mani in direzione della porta di ingresso.
Jessamine furibonda comprese che trattenersi ulteriormente sarebbe stata solamente una perdita di tempo, così girò i tacchi e uscì dalla casa, sbattendosi violentemente la porta alle spalle.
Mentre si allontanava però si ripromise che sarebbe tornata, e la prossima volta non sarebbe stata sola.

CAPITOLO 5
Son sabbia i minuti,
spensierato mortale,
da non lasciar scorrere senza cavarne oro!
-Charles Baudelaire-

Certe volte accade che quando si sta cercando una persona da tanto tempo e non la si trova, per la frustrazione si inizia ad intravedere il viso di quest'ultima in quello di altre persone, un piccolo barlume di falsa speranza. Ora Jessamine si sentiva esattamente così.
Erano ormai quaranta minuti che stava camminando per le vie di Londra del quartiere di Piccadilly, dove di solito suonava James, ma di lui non c'era traccia.
Poco prima, appena aveva udito il suono soave di un violino, la ragazza aveva iniziato a correre in quella direzione, ma era finita per imbattersi in un cinquantenne con i baffi che per giunta le aveva ammiccato e fatto un sorriso sghembo.
Lei si era allontanata velocemente ed era giunta fino all'incrocio dove il giorno prima aveva visto suonare James. Quel giorno però la strada era deserta, tranne che per i pochi pedoni i quali passavano svelti senza fermarsi.
Sospirando e non sapendo più dove cercare, Jessamine si diresse verso una piccola caffetteria sull'altro lato della strada, dove erano solite fermarsi le persone dei ceti più abbienti per prendere il tè, e decise di sedersi per fare una pausa. Si sistemò in una delle sedie all'esterno in modo tale che se James di lì a poco fosse passato lei l'avrebbe visto.
«Buongiorno signorina, cosa desidera?» le chiese in quel momento una giovane cameriera, che era già accanto al suo tavolo pronta per prendere le ordinazioni.
«Una tazza di tè insieme a del latte. Me li porti separati, per piacere.» ordinò Jessamine tenendo gli occhi sempre fissi sulla strada.
«Certamente, arrivano subito. Con permesso.» disse la cameriera per poi tornare all'interno del locale.
Mentre attendeva le sue bevande e teneva d'occhio la strada, la ragazza si mise ad osservare una bambina seduta nel tavolo accanto al suo. Avrà avuto all'incirca cinque anni ed aveva i capelli ricci raccolti in una lunga coda che ricadeva su un vestito elegante, fatto di pizzo.
Stava sbocconcellando dei biscotti e la madre, seduta di fronte a lei, le parlava ammonendola in continuazione: «Brigitte, devi mangiare con la bocca chiusa. E tieni la schiena dritta!»
La bambina in risposta obbediva quasi automaticamente, di sicuro abituata a sentirsi rivolgere quegli ordini.
Distogliendo lo sguardo Jessamine ripensò alla rigida educazione che avevano impartito anche a lei da piccola, ma in quel momento arrivarono le sue ordinazioni quindi smise di pensare al passato e tornò con la mente al presente.
La cameriera di prima ora le stava appoggiando le bevande sul tavolo, così lei ne approfittò per parlarle: «Mi scusi, volevo chiederle un'informazione.»
«Certo, sono a sua disposizione. Vuole ordinare qualcos'altro dal menù?»
«No, desidero sapere da lei se per caso mentre oggi serviva ai tavoli ha notato nella strada qui di fronte passare un musicista.»
«Un musicista dice?»chiese la cameriera assumendo un'aria pensierosa. «A pensarci bene ce ne era uno ieri, signorina, e suonava anche molto bene. Mi pare avesse i capelli neri ed era posizionato là.» e indicò l'incrocio di fronte al negozio di libri.
«Proprio lui.» disse Jessamine annuendo. «E oggi non l'ha visto?»
«No, oggi non ha suonato nessuno in questa strada ed è un peccato perché ai clienti piace.»
«Va bene, grazie delle informazioni. Quanto le devo?» chiese lei tirando fuori il portafoglio.
«Sono quattordici pound.»
«Ecco, tenga anche il resto.» disse lasciando una banconota da quindici sul tavolo, per poi alzarsi mentre la cameriera la ringraziava.
Tornando in strada Jessamine decise di andare a guardare i libri esposti nel negozio dell'incrocio, per cercare di distrarsi. Ma la verità era che aveva un unico pensiero fisso in testa: trovare James.
Non sapeva perché quel giorno non si fosse recato lì per suonare e nemmeno dove fosse, e questo le provocava un forte senso di impazienza che le faceva ribollire il sangue nelle vene.
Inoltre sentiva su di se l'azione incontrastante del tempo, che scorreva troppo velocemente, lasciandole sempre meno possibilità di risolvere il caso. Restavano solo quattro giorni e poi James sarebbe partito, proprio come aveva detto.
Allontanandosi dalla vetrina la ragazza si andò a sedere desolata su una panchina lungo il marciapiede. Quel giorno nulla stava andando per il verso giusto: prima non era riuscita a parlare con i suoi genitori e aveva litigato con la governante, e ora James sembrava essersi dileguato proprio quando lei aveva più bisogno di lui.
Maledicendo per l'ennesima volta la sua sfortuna, con lo sguardo fisso in strada, Jessamine continuò ad aspettare.
Quando il sole stava iniziando a calare lei era ancora lì.
Il pomeriggio era passato lentissimo, tra tè al bar e vetrine dei negozi per passare il tempo, ma di James ancora nessuna notizia.
Più volte la ragazza aveva pensato di rinunciare e tornare a casa, ma poi alla fine era rimasta, convinta che prima o poi lui sarebbe arrivato.
In quel momento stava camminando a passo lento per la stanchezza lungo la stessa via principale, continuando a ripetersi che tutti i londinesi passavano di lì, ma a quel punto, decisamente esausta, iniziò ad urlare il nome del ragazzo a voce alta: «James!» chiamò scandendo le parole davanti a se, ma era come parlare al vento.
Qualcuna delle persone nella via si voltò incuriosita o infastidita, ma nessuna sembrò darle attenzione. Dopo che ebbe ripetuto invano il nome ancora qualche volta, si decise ad incamminarsi per tornare a casa, delusa.
Aveva appena imboccato una piccola via laterale quando una voce disse, proprio di fianco a lei: «Stai cercando James il musicista?»
Lei colta alla sprovvista si voltò di scatto e vide subito chi era stato a farle quella domanda.
C'era un ragazzo seduto in alto sullo schienale di una panchina che la stava osservando. Indossava vestiti logori, bucati sulle ginocchia, e teneva le mani in tasca.
«Allora? Cerchi James il musicista?» ripeté quello con voce piatta, senza un minimo di educazione.
«Sì, cerco il James che suona il violino, se è la stessa persona di cui parli tu.» rispose lei mantenendo le distanze dall'individuo. Non sembrava un tipo losco, ma aveva un modo di fare sgarbato che l'aveva subito messa in guardia.
«Credo proprio che stiamo parlando della stessa persona.» disse lui e poi fece un balzo e si avvicinò a lei. Jessamine istintivamente indietreggiò e a quel punto il tipo scoppiò a ridere in una risata roca, mostrando una dentatura rovinata. «Hai paura di me?»
Lei evitò la domanda e invece gli chiese: «Come conosci James?»
«Questa domanda dovrei farla io a te. Mi sembra più appropriata.»
«É un mio amico e ho assolutamente bisogno di vederlo.»
Il ragazzo scoppiò nuovamente a ridere: «Amico non credo proprio. Sembri piuttosto ricca per essere amica di uno come lui.» e pronunciando la parola “ricca” i suoi occhi si illuminarono pericolosamente.
Cercando di mantenere la calma Jessamine replicò: «E invece è così e devo incontrarlo. Per favore puoi dirmi, se lo sai, dove posso trovarlo?»
«Oh, dove sia in questo momento non lo so.» iniziò a dire il tipo toccandosi il mento per assumere un'aria pensosa. «Ma posso dirti che io e James ci conosciamo.»
La ragazza, che aveva già intuito quell'informazione, disse: «Allora saprai dove abita, o per lo meno dove alloggia.»
Quest'ultima frase provocò un attacco di tosse e poi nuovamente una risata nello strano ragazzo, che quando riuscì a parlare esclamò: «Non avrai mica intenzione di andare a casa sua.»
«In realtà era proprio la mia intenzione e non capisco cosa ci sia di sbagliato.» dichiarò lei lievemente irritata dalle parole del tipo.
«Beh vedi, c'è di sbagliato che la casa dove alloggia il nostro caro James sia casa mia, e io non faccio entrare degli sconosciuti. Per di più sei anche una ragazza ricca e per quanto ne so potresti essere in contatto con i piani alti. Non vorrei che per colpa tua la casa mi venisse requisita.» disse lui.
Jessamine rimase un attimo sconcertata da quell'informazione ma poi si scosse e disse: «Capisco. Presumo che viviate nelle case popolari.»
«Sono là in fondo a questa strada. Non mi sembri una che vuole ficcare il naso, comunque. Ma sappi che non ti dirò quale è casa mia. Se andrai in quel posto aspetterai James fuori.» concluse il ragazzo, che poi però fece un sorriso beffardo e sussurrò: «A meno che tu non preferisca venire con me in una stanzetta appartata.»
Scacciando la mano dell'individuo che stava per toccarla disse amareggiata: «No, grazie. Vado da sola.»
Non ci mise molto a raggiungere il quartiere delle case popolari e capì immediatamente di essere arrivata dal cambiamento dell'ambiente intorno a lei.
C'erano donne per terra in strada vestite solamente con degli abiti succinti o addirittura stracci, bambini scarni abbandonati contro i muri che non avevano abbastanza forze per alzarsi.
A Jessamine sembrava di essere entrata nell'Inferno, non in un'altra zona della città.
Voltando lo sguardo a destra e a sinistra verso le case che costeggiavano il marciapiede non si sorprese di vedere molti locali, dentro i quali si scorgevano uomini che giocavano d'azzardo circondati da donne mezze nude speranzose di ricevere qualche soldo.
La ragazza si rese conto che per lei era molto pericoloso camminare da sola in quel luogo.
Fortunatamente non c'era molta gente per strada, ma di lì a poco sarebbe calata la notte e lei sarebbe dovuta tornare a casa se non voleva fare una brutta fine.
Un po' intimorita urlò non troppo forte il nome di James, attirando l'attenzione di alcuni bambini che stavano giocando con dei bastoncini sul ciglio della strada.
Poi sentì provenire da poco più avanti di lei un urlo agghiacciante di donna, che le fece rizzare i peli sulla nuca.
Con il respiro mozzo Jessamine decise di non rimanere in quel posto un minuto di più. Così si voltò e inizio a camminare a passo svelto tornando da dove era venuta, volenterosa di allontanarsi il più velocemente possibile dall'urlo udito poco prima. Stava per salire sul marciapiede quando da una via laterale alla sua destra spuntò improvvisamente un'ombra nera che si fermò di scatto davanti a lei. Cacciò un urlo stridulo e una fitta dolorosa di paura le trafisse il cuore. Iniziò ad indietreggiare terrorizzata quando, mettendo meglio a fuoco il volto dell'ombra si accorse di conoscerla.
«James.» disse in un sussurro, e per poco non si metteva a piangere per il sollievo e la tensione provata prima.
Lui sempre restando immobile si schiarì la voce e poi scandì con tono di rimprovero: «E tu cosa ci fai qui?»


CAPITOLO 6
L'ira del gatto è bella,
bruciante di pura fiamma felina,
pelo irto e scintille blu,
occhi fiammanti e crepitanti.
-W.S. Borroughs-

«Tu sei venuta a cercarmi qui? Ma cosa ti è saltato in mente? É pericoloso e lo sai!» esclamò James allargando furiosamente le braccia.
Jessamine stava per replicare, ma in quel momento si udì una risata stridula provenire da una casa poco lontano da loro e lei non poté fare a meno di rabbrividire. Anche James sembrava allarmato e sbuffando le prese il polso e cominciò ad allontanarsi dal quartiere pericoloso.
La ragazza non sapeva cosa fare e dato che lui sembrava molto arrabbiato preferì restare in silenzio.
Quando i due ragazzi arrivarono in una specie di parcheggio pieno di carrozze in sosta si fermarono e James tirò fuori una sigaretta dalla tasca e se la accese.
Dopo alcuni minuti di silenzio, interrotti solamente dal leggero soffiare del ragazzo, egli disse: «Allora, spero tu avessi un buon motivo per essermi venuta a cercare in un posto del genere.» poi a voce più bassa aggiunse: «Non penso ci sia bisogno che io ti dica che sei stata molto fortunata. Se avessi incontrato qualcuno per strada non penso si sarebbe fatto molti scrupoli a prenderti e farti ciò che solo Dio sa.»
E detto questo il ragazzo abbandonò la schiena contro il fianco di una carrozza, con Jessamine di fronte che lo osservava imbarazzata per la predica.
«Mi dispiace. Ero venuta a cercarti perché avevo bisogno del tuo aiuto e...»
In quel momento qualcuno si schiarì la voce dietro di lei.
«Bene bene. Vedo che vi siete trovati. Allora James non vorresti presentarmi la tua bella ragazza? Anche se devo confessarti di averla già conosciuta prima.» la interruppe un uomo alle sue spalle dall'accento famigliare.
Voltandosi di scatto la ragazza si trovò a pochi centimetri dal ragazzo che poco prima le aveva dato le indicazioni per trovare James. Quell'individuo ora le stava sorridendo e James lo squadrava con una strana espressione sul volto: «Damian, come sarebbe a dire “ci siamo già conosciuti prima”?»
Damian scoppiò a ridere e poi avvicinandosi a lui gli diede una pacca amichevole sulla spalla, dicendogli: «Sì, la tua accompagnatrice non tel ha detto? É merito mio se è riuscita a trovarti. Diciamo che era un pochino sperduta e io le ho indicato la retta via.»
James cercando di mantenere la calma lanciò un'occhiata truce a Jessamine che immediatamente comprese quanto fosse arrabbiato. «É andata così Jessamine?»
Lei evitando di guardarlo negli occhi rispose: «Sì, è andata così.»
A quella risposta il ragazzo sospirò ma poi voltandosi verso Damian, che stava ancora sorridendo, disse cercando di sembrare sincero: «Beh in questo caso devo proprio ringraziarti, amico. Londra è grande e se tu non le avessi detto dove abitiamo forse non ci saremmo incontrati. Ora che è finito tutto bene però, noi dovremmo andare.»
A sentire quelle ultime parole il sorriso scomparve immediatamente dal viso di Damian, che divenne cupo: «Non così in fretta, James.» esclamò «Sai bene di non avermi ancora pagato il tuo soggiorno a casa mia e penso sia giunto il momento di sborsare i soldi.»
James sollevandosi dalla carrozza alla quale era appoggiato disse: «Ora non ho i soldi qui con me ma ti pagherò il prima possibile.»
Il ragazzo fece un sorriso sghembo: «Oh, ma se preferisci può pagare lei per te. Scommetto che vale una fortuna.» disse indicando Jessamine.
Lei istintivamente fece qualche passo indietro per allontanarsi e James le si parò davanti per nasconderla alla vista di Damian.
«Ti porterò i soldi che mi hai chiesto e anche di più se lo ritieni giusto, ma la ragazza lasciala in pace. É di famiglia importante e ti metteresti solo nei guai.»
«E va bene, ma voglio il doppio della cifra iniziale.» disse Damian.
James annuì e prese Jessamine per un braccio. Poi facendo un cenno di saluto a Damian cominciò a camminare verso la via che avrebbe condotto la ragazza a casa, trascinandosela dietro.
Dopo che si furono allontanati abbastanza dal ragazzo James mollò la presa e iniziò a dire: «Non ci posso credere! Tra tutte le persone che potevi incontrare dovevi parlare proprio con Damian? Adesso mi hai cacciato in un bel guaio! Non riuscirò mai a guadagnare abbastanza soldi per pagarlo  e a quel punto chissà cosa succederà!»
Jessamine cercò di allungare una mano verso di lui per prendergli la spalla ma James si scostò irritato, allora lei disse: «Senti, mi dispiace. Oggi ti ho aspettato tutto il giorno nella piazzetta dove di solito suoni ma tu non c'eri, dunque sfinita stavo camminando e lui, Damian, mi ha fermato dicendomi di conoscerti. Tu cosa avresti fatto al posto mio?»
James sospirò per l'ennesima volta e poi disse: «Lasciamo stare. Ormai è andata così e riuscirò a saltarci fuori in qualche modo.»
«Per i soldi non devi preoccuparti, te li darò io. In ogni caso te li devo, come ricompensa per ciò che stai facendo per me.» spiegò Jessamine sorridendo.
James la osservò intensamente: «Non ti avrei mai chiesto dei soldi. Odio sentirmi in debito, e nemmeno ora te li chiederò se non saranno davvero necessari.»
«Va bene.» annuì lei contenta che l'atmosfera tra loro fosse tornata pacifica.
«E ora spiegami, come mai avevi così urgenza di incontrarmi finendo persino in pericolo?» le chiese James riprendendo a camminare.
Ora si trovavano in una via molto spaziosa con negozi di tessuti di ogni colore, che rendevano l'atmosfera allegra.
Jessamine si affiancò a James e lo prese a braccetto, dopodiché spiegò: «Stamattina sono andata a casa dei miei genitori. Il tempo stringe così avevo deciso di indagare parlando con loro, ma non erano in casa. In compenso però ho parlato con la governante, che si è comportata in modo molto strano.»
«Cioè?»
«Quando le ho chiesto di Alåen e della sua nascita ha iniziato a dire di non saperne nulla ed è scappata via.»
James osservandola con sguardo acceso disse: «Curioso. É interessante anche il fatto che pure io stamattina sia andato a trovare i miei genitori.»
Jessamine spalancò gli occhi sorpresa e lasciò che il ragazzo continuasse a parlare.
«Sono andato là per indagare e non ci crederai mai ma mi è successa una cosa simile alla tua.»
«In che senso?» chiese lei interessata.
«Quando ho chiesto a mia madre se avesse mai conosciuto un ragazzo di nome Alåen di aspetto molto simile al mio, lei ha iniziato a piangere e ad urlare fintanto che non ha attirato l'attenzione di mio padre, il quale si trovava nella stanza accanto. Lui cercando di calmare mia madre mi ha chiesto cosa fosse successo, e quando ho detto anche a lui il nome 'Alåen' il suo viso è diventato una maschera di ferro e alla fine mi ha cacciato via.»
«Non ci posso credere!» esclamò Jessamine «Sai cosa vuol dire questo vero? Che anche i tuoi genitori sanno qualcosa che non vogliono dire.»
«Oh, certo che sanno. Ma io ho scoperto qualcosa di più.»
I due ragazzi erano ormai giunti davanti al portone della casa della ragazza e stavano rallentando il passo, fino a che non vi si furono fermati davanti.
«Forza non tenermi sulle spine.» lo incitò lei.
James aveva uno sguardo fiero:«Prima di andarmene sono riuscito a frugare un poco nei vari cassetti in casa e nascosta dentro uno dei mobili della camera da letto dei miei genitori ho trovato questa.»
James le porse una fotografia stropicciata. Aveva un angolo strappato, ma quando la ragazza la prese in mano riuscì comunque a vedere cosa raffigurasse.
«É un neonato.» borbottò lei avvicinandosi agli occhi l'immagine del bambino, per osservarlo meglio. Aveva i capelli neri ed era sdraiato in una culla.
«Gira la foto.» le suggerì James con voce concitata.
Lei fece ciò che le era stato detto e notò sul bordo del retro bianco una scritta in bella calligrafia che recitava: “Alåen, 7-05-1855”.
Portandosi una mano alla bocca alzò lo sguardo per incontrare gli occhi di James, che la stavano già scrutando ansiosi di vedere la sua reazione.
Jessamine però riguardando la foto disse: «C'è un errore. Questo neonato nella foto non può essere Alåen. Lui è nato il 13 febbraio 1856.»
James si schiarì la voce e poi disse: «Infatti il 7 maggio 1855 sono nato io.»

CAPITOLO 7
Mia cara, forse non odi come
lo stridente stridore del mondo
è un eco fallace
delle trionfanti armonie?
O forse, mia cara, non senti
che solo una cosa v'è al mondo:
ciò che un cuore
a un cuore confida
in un muto saluto?
-Vladimir Sergeevic Solov'ev-


«C'è qualcosa che ci sfugge, ma non riesco a capire cosa.» borbottò Jessamine seduta in una delle poltrone in velluto rosso della sua camera.
James annuì con sguardo assente. Era seduto anche lui in una delle poltrone ed aveva stretta in mano la fotografia che il giorno prima aveva trovato nella fattoria dei suoi genitori, e la contemplava come se di lì a qualche minuto l'immagine potesse cambiare rivelandogli nuovi segreti.
Quando la sera prima l'aveva mostrata a Jessamine lei aveva avuto esattamente la reazione che si era immaginato, diventando bianca come un cencio e sgranando gli occhi. Dopo, essendo ormai notte tarda, i due ragazzi si erano salutati dandosi appuntamento la mattina seguente nella villa della ragazza. Così ora James si trovava nell'enorme stanza padronale della villa.
«Ricapitoliamo un attimo.» disse alzandosi in piedi. «Abbiamo trovato la foto di un neonato con la dichiarazione che si tratta di Alåen, ma la data riferita alla sua nascita non corrisponde a quella vera, ma alla data di quando sono nato io.»
Jessamine si mise una mano sulla fronte e socchiuse gli occhi: «Mi sta venendo mal di testa.»
Il ragazzo la ignorò e continuò il suo ragionamento: «Ora resta da capire perché i miei genitori possedessero quella foto e soprattutto che collegamento ci sia tra la mia nascita e quella di tuo fratello.»
La ragazza si alzò in piedi e ponendosi di fronte a James gli prese dolcemente le mani tra le sue. «Non riusciremo mai a risolvere questa questione da soli.» disse Jessamine guardandolo intensamente negli occhi. «Ho tante idee per la testa che pur essendo assurde sembrano essere le uniche risposte plausibili, eppure mi spaventano.»
«Ti ascolto.» le sussurrò James.
«Vedi, sembra incredibile, ma se tu fossi mio fratello? Tu e Alåen vi assomigliate troppo per non avere almeno un legame di parentela, e la foto che abbiamo trovato non fa che confermare questa teoria.»
James liberò le sue mani da quelle della ragazza ed esclamò voltandole le spalle: «É una follia. Se io fossi tuo fratello, allora dimmi perché ho dovuto vivere in una famiglia senza soldi, mentre tu ne hai abbastanza per tutta la vita. Ho dovuto lavorare nelle miniere da bambino, spaccandomi la schiena per portare il cibo a casa.» poi lasciandosi andare in una poltrona disse con voce ferma: «Quello che hai detto è impossibile.»
«Ma pensaci! E se ci avessero divisi alla nascita? Se fossimo tutti e tre fratelli? Sai cosa vorrebbe dire questo, vero? Potresti crearti una nuova vita, ricominciare...»
«Basta!» la interruppe James con voce dura. «Tu non sai cosa stai dicendo, Jessamine. Non capisci cosa mi stai offrendo? La cosa che ho sempre desiderato, una vita che non ho mai avuto. Ma ti dico io come andrà: alla fine di tutta questa storia, quando scopriremo la verità, l'unica a beneficiarne sarai tu. Io tornerò alla mia lurida esistenza, vivendo per strada e mangiando qualche volta a settimana. Quindi, per favore, non parlare di cose che non sai.»
Jessamine sentendo quelle parole avvertì una fitta di dolore al petto, ed andandosi a sedere sul letto si prese disperatamente la testa tra le mani.
«Mi dispiace, non era mia intenzione darti false speranze, cercavo solo di trovare una risposta.»
In quel momento qualcuno bussò alla porta della camera così Jessamine urlò: «Avanti!»
La porta si aprì ed entrò Lorrie, che fermandosi a pochi passi dai due ragazzi chiese gentilmente: «Signorina, ero venuta a chiederle se lei e il suo ospite gradivate qualcosa da mangiare o da bere.»
La ragazza agitò una mano in aria in segno di rifiuto e congedò la domestica, ma poi ripensandoci disse: «Anzi, Lorrie, porta qualcosa da mangiare per James, il mio ospite.»
«Subito signorina.» e detto questo la donna uscì dalla stanza, per poi ritornare poco dopo con in mano un vassoio colmo di dolcetti e biscotti.
«Ti ringrazio, ora puoi andare.» disse Jessamine dopo che la domestica ebbe appoggiato il cibo su un tavolino al centro della stanza.
James si avvicinò al vassoio con gli occhi che tradivano il suo desiderio e dopo aver guardato Jessamine in segno di ringraziamento prese un biscotto e iniziò a mangiare.
«Da quanto tempo era che non mettevi qualcosa sotto i denti?» gli chiese la ragazza.
«Da ieri pomeriggio. Mi è andata di peggio.» spiegò lui prendendo un altro dolcetto.
«Come fai a resistere senza mangiare per giorni interi?»
«Abitudine, presumo.»
Passarono alcuni minuti in cui i due ragazzi rimasero in silenzio, James continuando a mangiare e la ragazza osservando fuori dalla finestra il sole mattutino in cielo coperto dalle nuvole.
Ad un tratto un uccello passò velocemente davanti alla finestra e Jessamine disse, volgendo lo sguardo verso il ragazzo: «Riguardo al discorso di prima, è evidente che c'è qualcosa di sbagliato nelle informazioni che possediamo.»
James la guardò incuriosito: «Pensi che ci siano sotto delle menzogne?»
«É proprio quello che sto pensando.» rispose la ragazza annuendo.
«Allora dobbiamo scoprire la verità.»
Jessamine si alzò dal letto e dirigendosi verso la porta della stanza disse con voce ferma: «Andiamo nel luogo dove le menzogne sono di casa: dai miei genitori.»

CAPITOLO 8
Per l'uomo arriva un momento in cui non ha più
la libertà della scelta, non perché ha scelto, ma
perché non l'ha fatto, il che si può anche
esprimere così: perché gli altri hanno scelto per lui,
perché ha perso se stesso.
-Soren Kierkegaard-

Le nuvole in cielo avevano incominciato a coprire il sole ed un venticello freddo muoveva la foglie degli alberi e anche i capelli di Jessamine. Era incredibile come il tempo potesse cambiare velocemente a Londra, trasformando una giornata soleggiata in una piovosa in dieci minuti.
James che camminava accanto alla ragazza si teneva ben stretto sulla testa il cappello che poco prima gli aveva prestato lei, per evitare che l'aria forte se lo portasse via.
«Sta arrivando un temporale.» disse annusando l'aria, che odorava di pioggia.
«Sì, meglio se ci sbrighiamo.» esclamò Jessamine aumentando il passo. Il ragazzo la imitò.
Mancava poco ormai per raggiungere la villa dei genitori della ragazza, che distava poco a piedi dalla sua. Dopo qualche minuto infatti lei esclamò: «Eccoci arrivati.»
Fermandosi davanti al grande cancello in ferro dell'abitazione, allungò una mano per suonare il campanello, ma James la fermò prendendogliela in una stretta incerta: «Aspetta...»
Jessamine voltandosi verso di lui per guardarlo in faccia notò che aveva un espressione preoccupata.
«James non devi essere nervoso. Sarò io a parlare con loro.» e poi aggiunse stringendogli la mano: «Anzi, quando ti vedranno rimarranno così sconvolti che non avranno molto da dire.»
Il ragazzo annuì ma abbassò lo sguardo mentre lei suonava il campanello.
Dopo pochi minuti si udirono rumori provenire dall'interno della casa e la tenda della finestra che dava sul cortile si mosse lievemente. Due occhi si erano messi ad osservare per un attimo e poi erano scomparsi.
Il portone della villa avrebbe dovuto aprirsi, ma invece rimase chiuso. Jessamine risuonò infastidita il campanello.
«Forse non sono in casa.» azzardò James.
«Oh, certo che ci sono. L'hai vista anche tu la persona alla finestra. Semplicemente mi hanno vista e non vogliono aprirmi.» spiegò la ragazza con tono duro.
In quel momento un tuono scoppiò sopra la loro testa assordandoli. Il vento aveva iniziato a soffiare più forte, facendo sentire il suo potente ululato.
«Chantal apri!» urlò Jessamine stringendo le sbarre del cancello, che però rimase immobile. «Maledizione, se non riusciamo a parlare con loro non otterremo mai le risposte che cerchiamo!»
Proprio mentre i due ragazzi stavano per arrendersi la porta di ingresso si socchiuse e la governante uscì dalla grande villa, oltrepassando il giardino per venire verso di loro.
Non si era ancora accorta che Jessamine non era sola, poiché James era coperto dal pilastro in mattoni del cancello.
Poco prima che lei li raggiungesse la ragazza gli bisbigliò: «Non toglierti il capello.»
Lui annuì.
Chantal aprì il pesante cancello emettendo uno sbuffo di fatica e disse: «Entra, i tuoi genitori ti stanno aspettando.»
Aveva una voce seccata e fissava Jessamine con uno sguardo di rimprovero. Poi si accorse di James, che uscì dall'ombra per avvicinarsi.
«Oh, chi è questo gentiluomo che ti accompagna?» chiese Chantal indicandolo, mentre lui si calava più giù il cappello sugli occhi.
«Si chiama James, vorrei presentarlo ai miei.» spiegò Jessamine sorpassando la governante ed inoltrandosi nel giardino per arrivare in casa.
La donna lanciò ancora qualche occhiata al ragazzo, che ora stava seguendo Jessamine, e poi si affrettò per precederli.
Quando entrarono nella villa disse: «Per di qua, in salotto.»
Poi facendo piccoli passi ed entrando nel locale ben arredato annunciò a voce alta: «Padroni, c'è vostra figlia con il suo uomo, e vorrebbe presentarvelo.»
Jessamine entrò nella sala e vide i suoi genitori che la osservavano seduti su un ampio divano color crema e scorgendo il sorriso beffardo sul volto di sua madre si affrettò a specificare: «Non è il mio fidanzato.» poi voltandosi indietro esclamò: «James vieni avanti.»
Il ragazzo, che stava ammirando gli arredi a bocca aperta, si affrettò ad affiancare la ragazza.
«Volevo presentarvi questo gentiluomo che ho avuto la cortesia di conoscere.» proseguì lei.
Il padre della ragazza si agitò leggermente sul divano e disse: «Bene, forza, presentacelo.»
E James a quelle parole fece abilmente un inchino e nel frattempo si tolse il cappello dalla testa, mostrando il suo volto.
La reazione fu immediata.
La signora Cavendish lanciò un urlo acuto e penetrante, e alzandosi di scatto dal divano andò a posizionarsi nell'angolo più lontano del grande salone, dove si mise la mani sulla bocca per soffocare un altro urlo.
Il signor Claudius Cavendish invece era rimasto sul divano, e se in un primo momento il suo viso era stato percorso da un'espressione sconcertata, ora era tornato al suo solito pallore, anzi pareva persino annoiato. Questa reazione non piacque a Jessamine, che lanciando un'occhiata penetrante all'uomo che aveva di fronte disse tra i denti: «Padre, mi sorprende il tuo comportamento. Penso tu ti sia reso conto a chi è uguale questo ragazzo.»
L'uomo alzando un sopracciglio esclamò: «Illuminami.»
«Oh, ma per favore! Fai pure finta di nulla! Ti sei accorto benissimo che il ragazzo che mi accompagna è identico ad Alåen!» disse Jessamine allungandosi verso il padre.
Il signor Cavendish si alzò in piedi per sovrastare la figlia,  ma mantenne sempre la calma snervante che lo caratterizzava: «Figlia mia, devo proprio dirti che ti stai sbagliando. Questo bel ragazzo assomiglia ad Alåen quanto un pesce assomiglia ad un gatto.»
Jessamine spalancò la bocca per lo stupore e poi indicando furiosamente James urlò: «Guardalo, è identico! Padre, io lo so che mi nascondi qualcosa, me l'hai sempre nascosto!»
James nel frattempo era in piedi immobile che osservava la scena imbarazzato, sentendosi un intruso ad ascoltare quella lite famigliare e totalmente fuori luogo in quella villa sfarzosa.
Dopo alcuni minuti Claudius sospirò e appoggiando una mano sulla spalla di lei disse: «Jessamine, evidentemente non ti sei ancora ripresa dopo la morte di tuo fratello. Credevo che ormai avessi superato il trauma, ma è chiaro che non è così. Devi farti aiutare. Se mi permetti posso portarti da un buon dottore...»
«Un buon dottore! Tu mi credi pazza! É incredibile.» esclamò lei allontanandosi dalla mano del padre, per poi scoppiare in una risata isterica: «James, per favore, diglielo anche tu. Ti ho mostrato quella foto di mio fratello. Diglielo che è incredibilmente uguale a te.»
Il ragazzo mettendosi le mani in tasca con fare impacciato rispose: «Sì signore. Confermo ciò che sta affermando sua figlia.»
Il signor Cavendish, avvicinandosi lentamente a James, quando ebbe il viso a pochi centimetri da suo gli puntò un dito sul petto e a voce bassa disse: «Tu, lurido verme, non infiltrarti negli affari della mia famiglia. Come hai osato avvicinarti a mia figlia e mettergli le tue menzogne in testa!»
«Padre!» esclamò Jessamine indignata, cercando di dividere i due uomini, ma Claudius continuava a fissare James con sguardo duro. A sua volta il ragazzo aveva assunto un 'espressione truce, che presagiva la sua imminente perdita di pazienza.
«Era meglio se te ne stavi in quella tua sporca casa di campagna.» sputò il signor Cavendish voltandosi poi a guardare la moglie, subito dopo aver capito di essersi tradito.
Lei era ancora ferma nel suo angolo e stava pian piano assumendo uno strano colorito verdognolo in viso. A sentir quell'ultima frase di sui marito emise un altro debole urlo di sorpresa.
James stupito anche lui disse: «E lei come fa a sapere che vengo dalla campagna?»
Il signor Cavendish non rispose e si voltò per dargli le spalle.
«Me lo dica! Che cosa sa lei della mia famiglia?» urlò il ragazzo, che ormai aveva dimenticato le buone maniere e voleva solamente scoprire la verità.
«Vi prego, basta.» disse in quel momento una voce che fino ad allora non aveva ancora parlato.
Tutti si fermarono e calò un silenzio tombale mentre i presenti si voltavano verso la signora Cavendish, che ora si stava lentamente avvicinando a loro.
Indossava un pesante vestito dorato che strusciava sulla moquette mentre camminava ed aveva i lunghi capelli neri raccolti in riccioli voluminosi.
Posizionandosi al centro della sala tra i vari presenti prese un braccio a Jessamine e le disse con voce spenta: «Penso dovresti andare a casa.»
«Non se ne parla nemmeno, madre. Non me ne andrò senza risposte. E basta con le menzogne.» disse la ragazza mantenendo gli occhi fissi in quelli neri della donna.
«Benissimo. Caro, siediti.» ordinò Cornelia Cavendish invitando delicatamente il marito a sedersi con lei. Non aveva ancora del tutto perso il colorito verdastro in viso ma ora sembrava aver preso sicurezza e giaceva altera sul divano.
A James e Jessamine non era stata offerta nessuna sedia quindi rimasero in piedi, in attesa che i due iniziassero a parlare.
«Avevamo detto che questa storia sarebbe rimasta segreta. Non doveva saperlo nessuno.» disse Claudius rivolto alla moglie.
«Doveva andare così, ma ormai non possiamo più nascondere la verità.» spiegò la donna.
Jessamine con la voce piena di tensione disse: «Forza, parlate.»
«Spero che alla fine sarai soddisfatta della tua decisione, figlia mia, perché non sempre sapere è un bene.» disse Cornelia, e poi cominciò a raccontare

CAPITOLO 9
Voi conoscerete la verità, e la verità vi renderà folli.
-Aldous Huxley-

«Prima di cominciare a raccontarti tutta la verità vorremmo dirti che non doveva andare così, ma è stato Alåen che ci ha costretti a fare ciò che alla fine abbiamo fatto.» cominciò a spiegare la madre di Jessamine.
Il padre stava semplicemente seduto accanto alla moglie con sguardo assente e sembrava stesse cercando di non ascoltare.
La donna sospirò e poi iniziò a raccontare: «Avevamo bisogno di un primogenito maschio. Tutte le famiglie importanti devono averne uno e già venti anni fa, benché fossimo giovani e inesperti, io e tuo padre eravamo una delle coppie più influenti e conosciute di tutta Londra. Non potevamo permetterci che il nostro primo figlio fosse una femmina. Poi rimasi incinta. Ovviamente in quei giorni non potevo sapere se il bambino che portavo in grembo fosse maschio o femmina, ma io e Claudius non potevamo rischiare accettando quest'incertezza. Pensammo molto ad una soluzione ma il tempo passava. Poi mio marito ebbe un'idea.»
La donna indicò James, e poi rivolta a lui proseguì: «Vedi, la tua famiglia da moltissimi anni ha un debito con la nostra. Ci sono documenti i quali attestano che la famiglia Evans debba restituire una somma contingente di denaro alla famiglia Cavendish. Sono questioni molto vecchie, si parla di dissapori tra i tuoi nonni e quelli di Jessamine. Comunque, grazie a noi, vent'anni fa il debito è stato estinto. Infatti venimmo a sapere che la signora Evans aveva avuto due gemelli maschi, ma purtroppo in quegli anni si era ammalata e loro avevano smesso di pagarci mensilmente il debito poiché suo marito aveva deciso di impiegare quei soldi nella cura della moglie e nella crescita dei suoi figli. Però restava il fatto che in qualche modo loro dovevano continuare a pagare, e così come pegno ci prendemmo uno dei due bambini, che valse tutti i soldi che restavano da pagare.»
Jessamine che era in piedi e osservava dall'alto la madre aveva iniziato a sbiancare durante il racconto e in quel momento fu sul punto di crollare a terra. James che le era accanto la sorresse, tenendole una mano attorno alla vita.
«Madre, ma questo non è possibile...vuol dire che...» iniziò a dire la ragazza, ma era troppo sconvolta per pronunciare una frase compiuta.
«Significa che Alåen non è mai stato tuo fratello, figlia mia, o per lo meno non di sangue.» disse la donna che aveva un tono tranquillo come se stesse parlando di scarpe, ricevimenti o vacanze.
«Ma permettimi di continuare a raccontare, poiché questo non è che l'inizio.» «Dicevamo che io e tuo padre abbiamo accolto Alåen in questa casa. Per prima cosa gli abbiamo cambiato la data di nascita dandogli un anno in meno, per differenziarlo dal gemello, poi era diventato a tutti gli effetti il nostro primogenito. A quel tempo aveva tre anni e sapevamo che una volta cresciuto non avrebbe ricordao nulla del poco tempo trascorso nella vecchia famiglia.
Qualche mese dopo sei nata tu, ed eri una bellissima bambina, ma vederti non aveva fatto altro che confermarci che la nostra azione era stata giusta. Dio era dalla nostra parte.»
«Come può pronunciare il nome di Dio in questo modo, invano.» disse piano James, che fino a quel momento era stato in silenzio. Probabilmente aveva un'infinità di pensieri per la testa ma erano così tanti che era impossibile anche solo prenderne in considerazione uno.
La madre di Jessamine, in risposta, disse solo: «Prendetevi una sedia, ragazzi.»
Dopo che i due ebbero obbedito proseguì, rivolta alla figlia: «Sono stati anni tutto sommato belli, quelli della vostra infanzia. Tu e Alåen andavate d'amore e d'accordo e credevate, naturalmente, di essere fratello e sorella. Poi però Alåen crebbe e per noi diventava sempre più difficile considerarlo come figlio nostro. Ci ritrovavamo a pensare al futuro imminente, quando lui avrebbe preso il titolo della nostra famiglia con tutto il patrimonio pur non essendo un Cavendish, ma bensì il figlio di una povera contadina. Eppure rimandavamo di giorno in giorno qualsiasi decisione.
Poi una sera Alåen trovò un documento che io e Claudius avevamo stupidamente lasciato in un cassetto. Attestava che Alåen era stato preso dalla famiglia Evans come prezzo per il saldo del debito. Quando l'aveva letto era andato su tutte le furie.
Ci ha urlato contro, blaterava di voler trovare la sua vera famiglia. Era fuori di se.
Il mattino dopo è uscito di casa dicendo che avrebbe fatto uno dei suoi soliti giri di ispezione nelle fabbriche, ma naturalmente né io né mio marito credemmo alle sue parole. Così Claudius lo seguì e lo vide salire su un treno diretto alle campagne.
Sul documento che Alåen aveva trovato era scritto anche l'indirizzo della casa dei suoi genitori, così per lui non fu difficile trovarla. Incontrò i signori Evans e stette là con loro tutto il giorno, ma al suo  ritorno a Londra tuo padre era in stazione ad aspettarlo.
Oh, Alåen si era messo strane idee in testa, aveva iniziato a dire che avrebbe aiutato economicamente la sua vera famiglia perché viveva nella miseria, e aveva minacciato Claudius di raccontare la verità in giro.»
In quel momento il padre di Jessamine, sentendosi preso in causa, decise di proseguire lui il racconto: «Abbiamo avuto un litigio alla stazione. All'inizio credevo volesse prendermi a botte, tanta era la rabbia negli occhi e nella voce di quel ragazzo. Gli proposi più volte di ragionare e di tornare a casa, ma lui non ne voleva sapere. Era diventato un pericolo per il titolo della nostra famiglia, capite?
Così mentre se stava per andare infuriato, gli ho tirato una botta in testa con il mio bastone da passeggio. É caduto a terra inerme. Tutta la gente alla stazione aveva iniziato ad osservarci ma io spigai che era tutto a posto e distolsi in fretta l'attenzione da noi due. Oh, Alåen non era morto, naturalmente. Ma non poteva restare vivo, con ciò che sapeva.
Così l'ho portato in una delle nostre fabbriche, quella di Aldgate, e mentre tutti gli operai all'interno stavano lavorando vi ho depositato il suo corpo ancora svenuto e ho appiccato un incendio. Nessuno è rimasto vivo. Dopo, quando la gente venne a sapere dell'accaduto, pensò che nostro figlio fosse disgraziatamente morto durante il suo lavoro di controllo, per colpa dell'incendio.
Nei giorni seguenti siamo andati io e mia moglie di persona a casa dei signori Evans per informarli di ciò che era successo, minacciandoli di non raccontare a nessuno di questa storia, altrimenti avrebbero fatto la stessa fine sia loro che il loro altro figlio, che fino ad oggi non avevamo mai incontrato. Ma ora eccoti qui.» concluse rivolto a James. Il ragazzo sconvolto stava per parlare, ma venne interrotto da un urlo agghiacciante di fianco a lui. Jessamine si era alzata in piedi con gambe tremanti e ora si teneva le mani sulla bocca. Aveva le guance rigate della lacrime e stava continuando a piangere. La madre sospirando si alzò in piedi e allungò una mano verso la spalla della figlia, ma la ragazza gridando nuovamente si scostò in modo fulmineo, come se la donna fosse un essere velenoso.
«Stammi lontano.» ringhiò Jessamine mentre continuava a piangere.
«Bambina mia, non capisci...» disse la signora Cornelia avvicinandosi nuovamente.
«Stammi lontano!» urlò lei. «Come avete potuto fare questo? Siete dei mostri, degli assassini!»
Il signor Cavendish alzandosi anche lui in piedi disse: «Jessamine, noi volevamo bene ad Alåen, ma non era tuo fratello. Era solo il figlio di una contadina. É stato un grosso errore il nostro, di farti credere che fosse il tuo vero fratello.»
«Ma lui era mio fratello!» sbottò la ragazza. «Molto di più di quanto io adesso non vi consideri i miei genitori. Siete patetici. E tutte le persone che quel giorno erano a lavorare in fabbrica, che fine hanno fatto?»
«Tel ho detto, sono morte. Ma non vederla in modo più brutto di quanto non sia in realtà. Erano solamente schiavi e poveri di poca importanza.» rispose Claudius.
«Non ci posso credere. Voi avete ucciso degli innocenti. Tu, sei un assassino!» urlò Jessamine per poi riprendere a piangere.
James intanto aveva il volto che da stupito pian piano si stava trasformando in una maschera di rabbia e vedere la ragazza accanto a lui piangere distrutta fu la goccia che fece traboccare il vaso: «Signor Cavendish, io non le permetto di insultare mia madre e la mia famiglia in questo modo.» aveva le mani strette a pugno lungo i fianchi.
«Io non ho insultato tua madre e nemmeno la tua famiglia. Ho detto soltanto cosa siete: dei poveri contadini.»
«Siamo comunque persone migliori di lei e sua moglie! Ha ragione Jessamine, siete dei mostri e pure patetici. Avete ucciso mio fratello che nemmeno sapevo di avere, e ora non avrò mai l'occasione di conoscerlo, e per cosa? Per il vostro stupido titolo famigliare.»
«Sono cose che non puoi capire.» si intromise la signore Cornelia.
«Saranno anche cose che non posso capire, ma resta il fatto che sono state sacrificate delle vite umane. E poi, ci sono cose che non si dimenticano. Perché vedere la propria madre che piange dato che deve mandare il proprio figlio di dieci anni a lavorare da solo in miniera facendo turni per due, quando invece avrebbe avuto un altro figlio per aiutare, no, questo non si dimentica.
Ora capisco perché piangeva sempre pensando ad un altro figlio: perché lei l'aveva, ma le era stato portato via come un cane!» urlò James avvicinandosi pericolosamente ai genitori di Jessamine, che indietreggiarono spaventati.
Il ragazzo puntando un dito contro di loro sputò: «Con i vostri sporchi soldi vi siete comprati tutto, ma quando andrete all'inferno, là quelli non potranno salvarvi.»
E dopo quella frase calò un profondo silenzio nella stanza, interrotto solamente dal singhiozzare di Jessamine, che ora si era seduta sulla sedia e si teneva il volto tra le mani.
Solo dopo diversi minuti la madre della ragazza si azzardò a parlare: «Figlia, sappiamo che ora sei sconvolta, eppure sei stata tu ad aver voluto sapere la verità. Prima o poi ti passerà e comprenderai ciò che abbiamo fatto. Sappi solo che quando Alåen era in vita l'abbiamo sempre trattato come un figlio.»
«Sono tutte menzogne.» rispose Jessamine con voce roca. «Un figlio non si uccide. E non sperate davvero che un giorno io possa perdonarvi per ciò che avete fatto perché non voglio vedervi mai più.»
E detto questo la ragazza si alzò in piedi e voltando le spalle ai due signori si diresse a passo infermo ma deciso verso l'uscita della casa. James la seguì ed entrambi uscirono dalla villa, sbattendosi la porta alle spalle.
Dopodiché attraversarono il lungo giardino in silenzio, uno accanto all'altra con lo sguardo fisso a terra, e solo quando furono fuori dal cancello si guardarono negli occhi.
Eppure, non c'era niente da dire.
Oggi entrambi avevano scoperto una crudele verità sulla loro vita.
Jessamine di avere genitori meschini, e di aver perso un fratello per mano loro; James di averlo trovato, ma troppo tardi per poterlo conoscere.
Il dolore traspariva dai loro occhi mentre si fissavano immobili e in silenzio ed era troppo per essere sopportato insieme.
Così, come leggendosi nel pensiero, si mossero insieme e cominciando a camminare nelle due direzioni opposte si diedero le spalle e si divisero.
Non ci furono più parole, e poi la pioggia cominciò a scendere.

CAPITOLO 10
Si conobbero. Lui conobbe lei e se stesso,
perché in verità non s'era mai  saputo. E lei
conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi
saputa sempre, mai s'era potuta riconoscere così.
-Italo Calvino, Il barone rampante-

James camminava lentamente strisciando i piedi sulla strada bagnata, con la pioggia che gli inzuppava tutti i vestiti. Eppure non se ne curava, e nemmeno sembrava notare il vento che soffiava forte e i fulmini che illuminavano il cielo.
Gelide gocce di pioggia gli scendevano dai capelli fradici sgocciolandogli sul naso e negli occhi, ma lui continuava a camminare.
Non si era mai sentito più solo di così.
Insomma, solitamente lui amava la solitudine, suonare il violino per isolarsi dal mondo o ritirarsi in campagna per stare in mezzo al nulla. Quel pomeriggio però la solitudine gli pesava sul petto come un mattone, rendendogli il respiro pesante. La verità era che riusciva a pensare solamente ad una cosa: aveva un gemello. O meglio, l'aveva avuto. Alåen. Forse la sua vita sarebbe stata differente insieme a lui. Avrebbero lavorato insieme, o magari suonato insieme, o forse insieme e basta.
Non aveva mai desiderato qualcuno con cui condividere se stesso. Hai più cose da possedere se non hai nessuno con cui dividerle; i pensieri restano tali se non hai nessuno ad ascoltarli.
E ora invece si ritrovava ad immaginare come sarebbe stata la sua esistenza con un fratello accanto.
Togliendosi con una mano i capelli dal viso si disse che era inutile pensarci, poiché ormai non ce ne sarebbe stato motivo. Per lo meno suo fratello aveva avuto una vita migliore della sua, prima di morire. Oh, e che brutta fine aveva fatto, bruciato nelle fiamme come un'anima dell'inferno.
Rabbrividendo a quel pensiero aumentò il passo per raggiungere in fretta la sua destinazione.
Un viso gli balenò in mente: Jessamine.
Doveva essere distrutta in quel momento. Tutto ciò che aveva creduto fino ad ora, tutta la sua vita fino a quel giorno si era mostrata falsa.
James non riusciva a liberare il suo pensiero da una brutta immagine che il suo subconscio aveva creato e che gli opprimeva il cuore: la ragazza, sola, a piangere sopra al suo letto.
Ricordò a se stesso che probabilmente stava succedendo davvero così. Ma lei sarebbe andata avanti.
Si sarebbe creata una nuova vita, sposando un uomo che le avrebbe donato la vita dei suoi sogni e facendo dei bambini ai quali spiegare che avrebbero avuto uno zio fantastico, che però non avrebbero mai conosciuto.
Ma nonostante ciò sarebbe andata avanti, ed era questo l'importante.
Eppure, pensare quelle cose provocava in James un forte senso di fastidio e infelicità. Sentiva il bisogno di fermarsi e tornare dalla ragazza, oppure desiderava che lei fosse in mezzo alla strada dietro di lui e lo stava per raggiungere.
Dopotutto si erano trovati bene insieme in quei giorni, c'era intesa tra loro.
Scacciando quei pensieri si chiese se stesse diventando pazzo. Lei era una donna appartenente alla borghesia e lui un semplice musicista di strada, e così sarebbe rimasto.
Era meglio se lui la dimenticasse e non si fossero visti mai più.
E poi perché lei avrebbe dovuto volerlo vicino, quando lui essendo uguale al fratello, glielo avrebbe ricordato ogni giorno?
Finalmente stava arrivando a destinazione: la stazione dei treni era poco avanti a lui, con il solito trambusto di persone che si muovevano all'entrata nonostante la pioggia.
Sarebbe partito, era la decisione giusta. Magari poteva tornare in Francia, a suonare sulle coste della Provenza o vicino alla Tour Eiffel di Parigi, e piano piano avrebbe dimenticato tutto, anche Jessamine. Ma in quel momento sentì dietro di lui un forte rumore di passi che si avvicinavano correndo.
«James! Non partire!» urlò quella voce che si era immaginato parecchio di sentire poco prima.
Voltandosi incerto vide Jessamine che correva verso di lui tutta fradicia tenendo sollevata la gonna con le mani. Quando lo raggiunse aveva il fiatone e i capelli appiccicati al viso dall'acqua: «Per fortuna ti ho trovato. Sapevo che stavi andando in stazione.» disse lei affannata.
James notò che i suoi occhi erano arrossati, segno che aveva affrontato un grosso pianto.
«Devo partire. Non ha più senso che io resti qui.» disse lui abbandonando lo sguardo a terra.
La ragazza annuì: «Lo so, non ti sto chiedendo di restare. Volevo solo ringraziarti e darti i soldi che ti devo. Senza il tuo aiuto non avrei mai scoperto...tutto questo insomma.»
E poi gli porse una busta contenente delle banconote.
«Jessamine, non dovevi.» replicò James indicando la busta dopo averla presa in mano. «Sai che sono contento di averti aiutato.»
Ci furono alcuni attimi di silenzio e poi la ragazza disse semplicemente: «Ti accompagno in stazione.» e i due ragazzi entrarono nell'edificio di fronte a loro, dove finalmente poterono ripararsi dalla pioggia.
I binari erano tutti vuoti e per il momento non c'erano treni in partenza, così poterono sedersi in una panchina per parlare ancora.
«Dove hai intenzione di andare adesso?» gli chiese Jessamine guardandolo intensamente negli occhi.
«Penso che andrò in Francia. É un bel paese e sicuramente il clima è migliore di quello londinese.» rispose James per fare del sarcasmo e sciogliere un poco la tensione che si era creata.
«Non sono mai stata in Francia, deve essere magnifica.» sussurrò lei, ma prima che potesse aggiungere altro James le aveva preso le mani nelle sue e con voce tremante disse: «Odio gli addii Jessamine. Per questo non ero venuto a salutarti prima di recarmi qui. Ma poi tu mi hai rincorso, perché l'hai fatto?»
«Perché non ce la facevo a lasciarti andare senza almeno averti visto un'ultima volta.» ammise la ragazza.
James sospirò: «Io credevo...insomma tu hai la tua vita. Io sono stato una piccola pedina presente in pochi giorni della tua intera esistenza. Dopo questo giorno tu andrai avanti e lo farò anche io.»
«Io non ho più la mia vita, James. I diciannove anni che ho vissuto si sono basati su una menzogna. Tutto in questa città mi ricorda che la mia vita era falsa.»
«E allora vieni con me. Partiamo insieme.» le disse il ragazzo stringendole le mani, che erano ancora nelle sue. «Viaggeremo, vedremo posti nuovi e ci creeremo una nuova vita dimenticando tutto quello che è successo.»
Lei guardandolo intensamente negli occhi ci mise molto prima di rispondere. Ciò che le era stato proposto era semplice: ricominciare. Si immaginò lei stessa mentre prendeva innumerevoli treni cambiando sempre destinazione, senza una casa o uno scopo preciso. Furono quelle immagini che le diedero la forza di parlare: «Io...non credo sia possibile. Siamo due persone molto diverse io e te, ognuno di noi ha le sue esigenze...»
James distolse lo sguardo: «Certo, è così. Non so proprio perché ti ho fatto una proposta simile.»
In quel momento si udì il suono forte di una campana e poi una voce annunciare: «É in arrivo il treno per Parigi al binario due! Affrettatevi, passeggeri! Seconda classe in coda!»
«É il mio treno.» disse James alzandosi in piedi. Jessamine fece lo stesso senza dire una parola e insieme si incamminarono verso il binario.
Poco dopo arrivò il treno che fermandosi liberò una grande quantità di vapore che avvolse i due ragazzi fermi sul marciapiede, mentre la voce di prima annunciava nuovamente l'arrivo del treno.
Dopo che si furono aperte le porte James sorrise appena alla ragazza e le disse: «Ora dovrei andare.»
«Certo.» annuì lei, ma poi lo prese e alzandosi in punta di piedi lo strinse in un abbraccio colmo di emozione. James all'inizio rimase stupito di quel gesto improvviso ma poi, chiudendo istintivamente gli occhi, strinse anch'egli a se il corpo della ragazza.
«Grazie di tutto.» gli sussurrò lei prima di liberarlo.
Lui le sorrise un ultima volta e poi, senza più voltarsi salì sul treno.
Era andato.
Jessamine era sola ora. Il treno era ancora fermo sui binari, ma sicuramente di lì a poco sarebbe partito.
Osservandosi la punta delle scarpe si rese conto di quanto anche lei odiasse gli addii. Prima di quel giorno infatti, non aveva mai dovuto dire addio a nessuno. Principalmente perché le poche persone a cui era affezionata non se ne erano mai andate, e l'unica a cui avrebbe voluto dare un addio, Alåen,  era morto senza di lei. Di una cosa però era certa: non avrebbe mai dimenticato James.
E non solo perché le ricordava costantemente il fratello, ma perché l'aveva fatta sentire bene. Le aveva insegnato che per vivere felici bastavano poche azioni: coltivare le proprie passioni, divertirsi e soprattutto amare le persone che si hanno accanto. Le altre cose, i soldi, il potere, una buona casa, erano superflue.
Eppure, si disse, lei non sarebbe mai riuscita a vivere senza di esse. Avevano da sempre fatto parte della sua vita, l'avevano dominata, rendendola ciò che era ora.
Ma non erano forse le stesse cose che l'avevano portata alla rovina?
«Treno in partenza!» urlò la voce. «Allontanarsi dai binari!»
Da quel giorno, che lei lo volesse o no, avrebbe iniziato una nuova vita. Quella precedente si era rivelata un grosso errore.
Ognuno ha la possibilità di scegliere ciò che vuole diventare e anche lei sapeva in quel momento di avere quella chance.
Se fosse rimasta a Londra non avrebbe mai dimenticato. Certo, qui aveva i suoi soldi, il suo potere e la sua bella casa, ma erano davvero quelle le cose che contavano?
No.
Le porte del treno erano ancora aperte.
«James.» sussurrò tra se, e in quel momento capì cosa avrebbe dovuto fare.
Facendo un balzo salì sul treno, appena in tempo prima che le porte venissero chiuse e il mezzo partisse sferragliando.
«James!» urlò inoltrandosi nel corridoio tra le persone sedute e poi lo vide, lì in piedi come un miraggio.
«Jessamine cosa ci fai qui? Il treno è partito!» le chiese lui trovandosela davanti e non credendo ai propri occhi.
«Lo so e ho fatto la mia scelta. Vengo con te.»
Dopodiché lui la abbracciò e quasi la sollevò in aria per la felicità, attirando l'attenzione degli altri passeggeri che osservavano la scena divertiti.
E Jessamine, che aveva lo sguardo rivolto fuori dal finestrino tornò incredibilmente con la mente a diverse notti prima, quando facendo un incubo aveva sognato un gatto che si specchiava in un fiume. Quel giorno non aveva compreso cosa significasse ma solo ora mentre James, commosso, le rideva nell'orecchio, capì che il gatto in realtà era lei e si rese conto che era solamente un allegoria della sua vita, la quale solo ora stava iniziando per davvero.
E se prima era nera la luce, ora il cielo è limpido.



























  LA MOSCA di Chiara Raineri Era molto probabilmente una mosca l’essere peloso e guardingo che stava appostato sulla finestra...