É NERA LA LUCE
DI LINDA SEIDENARI
Londra, 1878
Il gatto balzò giù dall'albero vicino al Tamigi e si
avvicinò all'acqua torbida. In esso la luce del sole mattutino, coperto a
malapena dalle nuvole, veniva riflessa producendo sfumature verdognole. L'aria
intorno a lui era silenziosa e pacifica, gli unici suoni che gli giungevano
alle orecchie erano quelli lontani degli zoccoli dei cavalli, che tiravano le
carrozze in giro per il centro della città e il vociare di qualche mendicante
di strada.
Si fece coraggio e si specchiò sulla superficie del fiume:
si vide strano. Si sarebbe aspettato di somigliare agli umani, e invece non
sapeva chi fosse. Si avvicinò meglio all'acqua rischiando quasi di caderci
dentro.
Era incredibile, non aveva mai provato un'emozione simile:
era come se fosse lì ma non del tutto presente, come se fosse lui ma non per
davvero.
Si sentiva totalmente estraneo a quel corpo, quasi ci fosse
qualcosa di sbagliato. Si ammirò le orecchie pelose e appuntite e le vibrisse
che spuntavano dalle guance, e questo non fece che aumentare la sua sensazione
di disagio.
Mentre stava prendendo in considerazione l'idea di
andarsene, il gatto rosso avvertì un urlo agghiacciante alle sue spalle. Si
voltò di scatto piantando gli artigli nel terreno ma la strada poco affollata
dietro di lui era silenziosa.
Poi lo avvertì di nuovo, ora incessante, provenire dal lago.
Quel suono lo circondava perforandogli i
timpani e impedendogli di capire quale fosse la fonte. Fu quando cercò di
isolarsi dal mondo che si rese conto del fatto che l'urlo non provenisse
dall'esterno, ma fosse dentro la sua testa.
E allora il gatto scomparve.
CAPITOLO 1
Ride delle
cicatrici colui che non è mai stato ferito.
-William
Shakespeare-
«Hai preparato il caffè? Si sente il profumo per tutta la
casa.» disse la ragazza entrando nel salotto con fare altezzoso, facendo
ticchettare i tacchi delle sue scarpe sul pavimento appena lucidato.
«Sì sono andata a comprarlo stamattina al mercato, signorina
Jessamine. Era a buon prezzo, così...» le rispose la domestica alzando lo
sguardo dal mobile in legno pregiato che stava spolverando.
«Hai fatto benissimo, infatti. Credo che più tardi ne berrò
volentieri una tazza. Non ora però perché sto uscendo.» disse Jessamine
raggiungendo l'attaccapanni, e mentre si infilava il cappotto aggiunse con un lieve sorriso: «Dovresti smetterla si
spolverare sempre, Lorrie. Questa casa è troppo pulita.»
«É il mio lavoro.» balbettò la giovane donna riponendo lo
straccio.
«Certo, e lo fai sempre molto bene.» concluse la padrona di
casa muovendo la testa in cenno di saluto. Sembrava avesse molta fretta di
andarsene.
«Aspetti!» esclamò Lorrie. «Poco fa l'ho sentita urlare
davvero molto forte signorina e mi chiedevo se fosse successo qualcosa.»
Jessamine si bloccò nel vano della porta e guardando la sua
domestica sospirò: «Sì lo so, ho avuto uno dei miei soliti incubi. Per questo
esco: Ho bisogno di schiarirmi le idee.» e detto questo si precipitò fuori
prima che la ragazza potesse risponderle.
Appena si ritrovò all'esterno venne travolta da una ventata
d'aria fredda che le fece svolazzare la gonna, facendole tremare le gambe. La
ragazza decise di imboccare a passo svelto Charing Cross Road, per arrivare nel
centro vero e proprio della città, dove forse avrebbe trovato qualche distrazione
dai suoi pensieri.
Mentre percorreva quella larga via si accorse che entrambi i
lati erano gremiti di bancarelle del mercato che pullulavano di gente, la quale
gli ronzava accanto come api attorno ad un'alveare.
Jessamine capì che anche se avesse voluto vedere la merce
esposta sui banchi non ci sarebbe riuscita, poiché la folla era troppa. Così
decise di proseguire per la sua strada sperando di arrivare abbastanza
velocemente al St. James Park, dove avrebbe trovato un clima più pacifico.
Man mano che avanzava, si rese conto che i banchetti si
diradavano pian piano lasciando spazio ad una visuale diversa: alcune carrozze
passavano trainate da cavalli al centro della carreggiata, facendo partire
schizzi di fango dalle pozzanghere per terra, mentre sedute sul marciapiede,
appena nascoste dalle ombre delle case, erano ammassate le moltissime persone
che non avevano nessun altro posto dove andare. L'aria inoltre era umida e
odorava di polvere e pioggia, segno che probabilmente presto sarebbe piovuto.
Mentre rifletteva a sguardo basso con i capelli castani
mossi dal vento, fu catturata da un suono che la obbligò ad alzare
immediatamente lo sguardo.
Sorpassando una signora che andava in direzione opposta alla
sua con in testa un grosso cappello a banda larga, intravide poco davanti a lei
la fonte della melodia.
C'era un ragazzo in piedi rivolto immobile verso la strada
che sembrava fissare il vuoto con aria assente. Avvicinandosi incuriosita
Jessamine notò che in realtà il ragazzo stava suonando un violino e aveva gli
occhi chiusi, con il viso contorto in una smorfia concentrata. Era molto bravo
e non sbagliava nemmeno una nota mentre produceva la sua canzone dall'aria
leggera e spensierata.
Completamente catturata dalla melodia, si mise ad osservare
meglio i tratti del suo viso: le parevano stranamente famigliari.
Anche i capelli, neri come la pece e arricciati lievemente
sulla nuca, li aveva già visti addosso ad un'altra persona ma in quel momento,
per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare a chi.
Stava ancora fissando intensamente quel ragazzo quando lui
si mosse, scostandola dai suoi pensieri e riportandola alla realtà. Lui suonò
l'ultima lunga nota e poi, staccando l'archetto dal violino, lo abbassò. Aveva
ancora gli occhi chiusi e Jessamine decise di spostare lo sguardo per non
sembrare indiscreta, ma quando lo risollevò il ragazzo la stava già fissando. I
loro occhi si incrociarono e fu allora che lei, spalancando la bocca per la
sorpresa, capì chi avesse davanti. Eppure era impossibile.
Non poteva essere lui.
Come immobilizzata dentro una lastra di ghiaccio trovò la
forza di sussurrare quel nome che non pronunciava ormai da tre anni: «Alåen.»
Il ragazzo, che fino ad ora era stato zitto ad osservarla
incuriosito le si avvicinò, e poi le tese la mano: «Veramente sono James,
piacere di conoscerla.»
Lei non rispose. Era lui, aveva anche la stessa voce, ma era
impossibile…
«Si sente bene? La mia musica, forse, non le è piaciuta?» le
chiese il ragazzo. Pareva sicuro di sé, e sotto l'espressione preoccupata
sembrava tenesse nascosto un sorriso.
«Come hai detto di chiamarti?»
«James. James Evans.» rispose con un accento londinese molto
marcato.
Jessamine ancora una volta non disse nulla. Non poteva
chiamarsi James. Lui era Alåen. Era lì davanti a lei, e avrebbe voluto
abbracciarlo e chiedergli dove era stato tutto quel tempo, ma lui la fissava
preoccupato e confuso.
«Scusa, devo avere sbagliato persona. Credevo fossi un
altro.» balbettò facendo qualche passo indietro per allontanarsi dal ragazzo.
Poi, ancora sconvolta, si voltò verso la via che aveva appena percorso e iniziò
a correre, tenendo sollevata la gonna per non inciampare. Alåen le urlò di
fermarsi ma lei non lo fece, voleva solo tornare a casa.
Quando qualche minuto dopo intravide finalmente i muri
bianchi in stile vittoriano della sua villa fece un sospiro di sollievo e si
precipitò subito dentro. Fortunatamente Lorrie aveva ascoltato il suo consiglio
e aveva smesso di spolverare, così ora il grande salotto era vuoto e
silenzioso.
Jessamine salì gli scalini di marmo per arrivare alla sua
stanza, dove entrò con una tensione quasi febbrile.
Andò subito ad aprire il cassetto del suo comodino con mani
tremanti: ciò che cercava era lì nel solito posto. Prese in mano la fotografia
e si ritrovò a guardare due volti che le sorridevano felicemente. Una era lei,
con addosso un abito da cerimonia pieno di pizzi e merletti, e di fianco c'era
lui, Alåen, che la abbracciava dolcemente e sembrava la persona più felice
della terra.
Ricordando quel giorno le venne da piangere, perché
esattamente cinque giorni dopo il suo amato fratello era morto, lasciandola
sola.
E oggi invece l'aveva rivisto. Quel ragazzo, James, era il
suo Alåen.
Sussurrando il suo nome ancora una volta, Jessamine si
lasciò cadere sul letto, stringendo la foto al petto e iniziando a piangere.
CAPITOLO 2
Se l'anno passato
potessi rivivere
E scegliere
dovessi tra il Bene e il Male,
Accetterei il
piacere insieme alla pena,
O ardirei
desiderare che non ci fossimo mai incontrati?
-Augusta, Lady
Gregory, Se l'anno passato potessi rivivere-
19. Un numero apparentemente casuale e senza senso. Eppure
erano proprio diciannove gli anni che aveva appena compiuto suo fratello prima
di morire. Accadde una settimana dopo il suo compleanno. Quel giorno Alåen si
era alzato presto ed era uscito a fare uno dei suoi soliti sopralluoghi in una
delle fabbriche di famiglia, per controllare che il lavoro degli operai
procedesse bene, ma di fatto poi non uscì più da quel posto. Nemmeno il suo
corpo venne più ritrovato, bruciato nell'incendio.
La sua famiglia da molti anni vendeva prodotti tessili che
venivano realizzati nelle varie fabbriche sparse per Londra. Erano almeno
cinque in tutta la città ed erano caratterizzate dall'insegna color giallo
senape con la scritta “Cavendish's Group”, che ricordava le etichette presenti
sulle lattine del cibo in scatola.
Avendo tre anni in meno del fratello, a quei tempi Jessamine
era una sedicenne. Aveva ben impresso nella mente il ricordo di quel mattino:
Alåen era uscito presto di casa e poi, circa un'ora dopo, se ne era andato
anche suo padre, probabilmente a fare una passeggiata diretto dal giornalaio
per leggere le notizie più interessanti della giornata.
Jessamine invece era rimasta a casa sotto il controllo di
quella che era la loro vecchia e scorbutica governante, con la mania per le
parrucche color bianco avorio e la fobia degli uomini del servizio postale. Lei
e suo fratello si divertivano moltissimo da piccoli a spiarla e vederla
sbiancare quando il postino arrivava per consegnare delle lettere.
Sorridendo malinconica per quel ricordo, Jessamine rivolse
il viso verso il cielo chiudendo gli occhi e lasciando che i raggi del sole
pomeridiano le scaldassero la pelle. Erano ore che se ne stava seduta su una panchina
sotto un salice di Hyde Park, a osservare le persone che passavano e
immaginando dove stessero andando.
Talvolta era bello concentrarsi sulla vita di un perfetto
sconosciuto pur di dimenticare per qualche minuto la propria. Ma quel giorno
dimenticare sembrava davvero impossibile. Jessamine era dal giorno precedente
che aveva un unico pensiero fisso in testa e ora la situazione era persino
peggiorata. Infatti, dopo che aveva superato ad un giorno e mezzo di distanza
lo shock iniziale dell'incontro con quel musicista, la sua mente si era
affollata di interrogativi a cui, per ora, non era riuscita a dare una
risposta.
Come poteva quel ragazzo essere Alåen, se era stato
dichiarato morto? E invece, ponendo il fatto che non fosse suo fratello, come
poteva essergli così simile, al punto da apparire uguale?
Per lei era frustrante non sapere la risposta a quelle
domande. Si alzò meccanicamente dalla panchina e si avvicinò ai lunghi rami del
salice, prendendone uno tra le dita e iniziando a staccare con poca attenzione
le piccole foglioline che lo rivestivano.
Proprio in quel momento passarono davanti a lei un bambino e
un uomo molto alto, che lo tratteneva per un braccio. Sembrava arrabbiato e
infatti poco dopo esclamò, strattonando il bimbo:
«Smettila di piangere!»
Inevitabilmente Jessamine ritornò con la mente ancora una
volta a quel giorno di tre anni prima, quando quella frase era stata detta
anche a lei.
Alåen dopo essere uscito per fare l'ispezione alla fabbrica
non era più tornato, ormai era sera, e lei e sua madre, mentre la governante
preparava la cena, si erano dette che suo fratello e suo padre dovevano essersi
incontrati ed essere andati in un pub a bere della birra, come erano soliti
fare quando avevano bisogno di passare il tempo in un ambiente da soli uomini.
Mezz'ora dopo suo padre era rientrato in casa coperto di
cenere dalla testa ai piedi e con il viso incredibilmente serio però, aveva
notato subito Jessamine, era solo.
Allora lei gli si era avvicinata incerta, avendo già capito
che era successo qualcosa di grave, ma dato che l'uomo non sembrava avesse
intenzione di parlare gli aveva chiesto, a voce bassa: «Padre, dov'è Alåen?»
Suo padre l'aveva guardata, le aveva toccato la spalla, e
spostandola delicatamente l'aveva sorpassata andando verso le scale che
portavano al piano di sopra. Poi però sul primo scalino si era fermato e senza
voltarsi aveva detto, con voce spenta: «C'è stato un incendio oggi nella
fabbrica di Aldgate. Alåen era lì dentro. Quando l'ho scoperto sono corso là,
sperando di trovarlo vivo. Non ci sono superstiti.»
E dopo quella frase non aveva detto più nulla. Non si era
nemmeno voltato per darle quella notizia, non l'aveva nemmeno guardata in
faccia.
E ora erano passati tre anni, eppure lei ancora si chiedeva
che faccia avesse fatto suo padre, mentre diceva che suo figlio era morto.
Mandando giù il groppo fastidioso che le si era formato in
gola e tornando alla realtà, osservò il ramoscello che aveva in mano che ormai
appariva completamente nudo e capì che c'era una sola cosa che doveva fare:
avrebbe ritrovato il violinista solitario e avrebbe indagato su di lui.
Allontanandosi dal salice e dirigendosi con passo deciso
verso l'uscita del parco, sperò in cuor suo che il ragazzo si trovasse nello
stesso posto in cui era il giorno prima.
CAPITOLO 3
Pur se la mia
anima tramonterà
nelle tenebre,
risorgerà in piena luce
Ho amato troppo le
stelle
per avere paura
della notte.
-Sarah Williams,
Il vecchio astronomo-
Stava tramontando il sole quando, con sollievo, Jessamine
trovò il musicista. Indossava la stessa camicia a quadri del giorno precedente
e in quel momento stava riponendo il suo violino in una grossa borsa nera.
Anche dalla distanza alla quale lo stava osservando la
ragazza notò che la somiglianza con Alåen era sconvolgente, al punto da
lasciarla senza fiato.
Ci aveva messo un po' di tempo a trovarlo poiché quel giorno
per suonare si era posto strategicamente ad un incrocio tra un ristorante
d'alta classe e un negozio di libri. Mentre Jessamine aveva la mente persa
nelle sue fantasticherie il ragazzo si era già caricato la borsa sulla spalla e
aveva iniziato ad allontanarsi, dileguandosi tra la folla. Allora lei iniziò a
correre nella direzione presa da lui e quando gli fu dietro di qualche passo
esclamò: «James! Fermo, aspetta!»
Lui si fermò e si voltò perplesso, ma quando la vide le si
avvicinò.
«Tu sei la ragazza di ieri, vero? Quella che continuava a
chiamarmi con un nome strano. Albert? Abel?»
«Alåen.» lo interruppe lei spazientita.
A sentir pronunciare quel nome gli occhi del ragazzo si
illuminarono di un bagliore improvviso, ma scostò lo sguardo così velocemente
che le impedì di decifrarlo. Poi iniziò a frugare con una mano nella tasca
sinistra dei suoi pantaloni, dalla quale tirò fuori una sigaretta rovinata.
Solo quando l'ebbe accesa riprese a parlare: «É evidente che sei qui perché mi
stavi cercando. Ed è altrettanto evidente che abbiamo lasciato da parte ogni
formalità. Ieri sei scappata così velocemente che non mi hai nemmeno dato la
possibilità di invitarti a mangiare qualcosa, ma ora vorrei rimediare: mi
permetti di accompagnarti in un ristorante?»
Jessamine lo osservò incuriosita emettere uno sbuffo di fumo
dalla bocca che si disperse velocemente nell'aria.
«Non ti sono venuta a cercare senza un motivo. Ho un bisogno
urgente di parlarti, ma qui, per strada in mezzo alla gente non mi è
possibile.»
«Quindi accetti il mio invito?»
«Sarò costretta a farlo, ma non montarti la testa. Verrò con
te solo perché ho bisogno di risposte.»
“E perché sei maledettamente
uguale a mio fratello.” aggiunse il suo subconscio, ma lei lo ignorò.
James sorrise in maniera un po' beffarda e porse
educatamente il braccio alla ragazza.
Lei lo prese e i due si incamminarono verso Pall Mall
street, la via delle belle arti di Londra e dei locali da gentiluomini.
«Spero che il posto dove andremo sarà di tuo gradimento. Ah,
non aspettarti un ristorante con i lampadari di diamante perché non avrei i
soldi per pagare nemmeno una fetta del loro pane.» annunciò James dopo qualche
minuto di silenzio. Non sembrava avesse vergogna ad ammettere di aver pochi
soldi in tasca, anzi, pareva accettasse senza problemi la sua condizione.
Jessamine alzò lo sguardo per osservare il suo viso sereno
illuminato dalla tenue luce del sole che scendeva all'orizzonte. Era bello,
proprio come lo era stato Alåen.
Rispondendo come avrebbe risposto a lui disse: «Per questa
volta cercherò di accontentarmi, ma la prossima volta mi aspetto di essere
portata come minimo ai ricevimenti di Buckingham Palace.»
«Pretenziosa la ragazza, di cui però ancora non so il nome.
Con chi ho il piacere di parlare?»
«Jessamine Cavendish, imparentata con i gran duchi.»
James si bloccò di scatto e spalancò gli occhi: «Oh, allora
sei proprio una persona importante. Desideri che mi inchini ai tuoi piedi?»
L'espressione fiera sul viso della ragazza si spense,
trasformandosi in un espressione divertita: «Non prenderti gioco di me e
sbrighiamoci ad arrivare al ristorante. Vorrei essere a casa prima che faccia
troppo tardi.»
Pochi minuti dopo i due stavano entrando in un piccolo
ristorante incastrato tra un negozio di pellicce e un calzolaio, in una
laterale di Pall Mall. Si chiamava “Wiltons Restaurant” e sulla facciata
presentava una grossa insegna circolare con inciso il nome del ristorante e
sotto “since 1742”.
Attraverso una piccola vetrata polverosa si intravedeva la
gente che consumava la sua cena.
Appena misero un piede dentro Jessamine avvertì subito il
travolgente odore di pesce che le punse il naso, mischiato a quello di birra e
frittura.
La sala che avevano davanti era piccola e i tavolini, ai
quali erano seduti i clienti che assaporavano piatti di ogni tipo, erano tutti
ammassati uno vicino all'altro.
James la osservò mentre una cameriera con un grembiule verde
gli indicava dove sedersi e le disse a voce alta, per sovrastare il
chiacchiericcio presente nella sala: «Non fare quella faccia. Non sarà un posto
lussuoso, ma ti assicuro che il cibo è buonissimo.»
Lei sorridendo appena sollevò la gonna per evitare che
toccasse il pavimento sporco e poi andò ad accomodarsi insieme a James nel
tavolo che avevano assegnato loro.
Ordinarono la stessa portata contenente pudding e pesce alla
griglia, e poi mentre attendevano ripresero a parlare.
«Allora, sono proprio curioso di sapere perché una nobile
signorina quale sei tu abbia bisogno di me.» disse James appoggiandosi comodo
allo schienale della sedia.
Lei prese fiato per parlare ma poi, osservandolo, si rese
conto di non sapere da dove cominciare. Così disse semplicemente: «Tu sei
uguale a mio fratello, che si chiama Alåen. Siete così identici che ieri,
quando ti ho visto suonare, ho creduto davvero che fossi lui e non ho ancora
del tutto cambiato idea. Anche se mi hai detto più volte di chiamarti James...»
Il ragazzo la interruppe. Si era sporto in avanti appoggiando
i gomiti sul tavolo: «Che cosa intendi con la frase “non ho ancora del tutto
cambiato idea”?»
«Che penso ancora che tu sia mio fratello.»
James la guardò allibito: «Scusa ma non ti intendo. Come
posso essere tuo fratello se non ci siamo mai visti prima? E poi se tuo
fratello si chiama Alåen...»
«Lui è morto. Per questo per me è stato così sconvolgente
incontrarti ieri. Sono tre anni che cerco di superare questa storia e poi mi ti
presenti davanti tu. Sei talmente simile a mio fratello che per me è ancora
incredibile averti davanti e ti giuro, sto sperando che adesso tu mi dica che
sai chi sono, che mi riconosci, e ammetti di essere Alåen.»
Il ragazzo scostò lo sguardo dal suo per mettersi ad
osservare le venature del tavolo e poi schiarendosi la gola e grattandosi la
nuca annunciò, lievemente a disagio: «Mi dispiace. Vorrei poterti dire di aver
incontrato tuo fratello per affermare io stesso la mia somiglianza con lui, ma
purtroppo non ho mai conosciuto e né conosco qualcuno di nome Alåen. Non è un
nome molto comune qui a Londra, me ne ricorderei.»
«Okay, ma sarai d'accordo con me che essere uguali ad una
persona morta è una cosa alquanto bizzarra.» sostenne Jessamine.
«Magari siamo solo molto simili, sai ci sono i sosia nel
mondo, e la mancanza che provi per lui mi fa apparire ai tuoi occhi uguale
perché hai voglia di rivederlo.»
«Mi credi una pazza.» disse la ragazza seria, ma in quel
momento arrivarono i loro piatti quindi smisero di parlare per iniziare a
mangiare. Dopo aver mandato giù qualche boccone dovette ammettere a se stessa
che James aveva ragione: il cibo non era davvero niente male.
«Allora, James, almeno raccontami qualcosa di te: la tua
vita, la tua storia.»
Il ragazzo alzò gli occhi dal piatto e annuì: «Sono nato
nelle campagne londinesi in una famiglia che nemmeno un giorno nella vita ha
avuto abbastanza da mangiare. La casa dove vivevo era piccola, ma il posto era
molto bello, sconfinato nella natura della brughiera.
Sono figlio unico. Mia madre quando avevo solamente tre anni
si è ammalata così non ha più potuto avere altri figli. Naturalmente non sono
mai andato a scuola. All'età di undici anni ho iniziato a lavorare in miniera
dove lavorava mio padre per portare qualche soldo in più a casa. Facevo turni
pesantissimi e mia madre piangeva sempre perché diceva che se avesse avuto la
possibilità di fare un altro figlio io avrei dovuto lavorare di meno.» James
socchiuse gli occhi, che ora erano diventati malinconici.
Mentre raccontava, Jessamine lo osservava attentamente e per
la prima volta da quando lo aveva incontrato la ragazza notò delle differenze
in lui da Alåen: un piccolo neo vicino al sopracciglio, una strana cicatrice
sulla mano destra, e il suo modo di sollevare solo un angolo della bocca per
sorridere. E allora capì che il ragazzo davanti a lui non era suo fratello: gli
assomigliava terribilmente, ma non era lui.
Poi James riprese a parlare in un sussurro: «Sai, quando
ogni giorno per sopravvivere hai un unica possibilità di scelta, non ti
soffermi a sperare in una vita migliore, soprattutto perché non ci credi.
Ma a diciotto anni capii che non volevo restare lì per
sempre. Così mi trasferii qui in città a suonare il mio violino, l'unica cosa
che davvero posseggo e di cui vado orgoglioso.
All'inizio restavo solo nelle vie di Londra, poi un giorno
dello scorso anno ho deciso di partire e uscire dalla città. Ho iniziato a
viaggiare: prima sono andato a Parigi, poi in Italia e in altri paesi d'Europa.
Ora sono tornato per poco a Londra, per portare un po' di soldi ai miei genitori
che sono ancora in campagna, ma presto ripartirò per una nuova meta.» concluse
il ragazzo.
Jessamine ebbe inevitabilmente una fitta al cuore sentendo
pronunciare quell'ultima frase: «Quindi sei un viaggiatore. Ora capisco perché
non ti avevo mai visto nelle strade di Londra prima d'ora. E quando hai
intenzione di ripartire?»
«La settimana prossima. Non resto mai più di due settimane
nelle città in cui vado.»
«Ma è prestissimo!» esclamò Jessamine a voce troppo alta,
attirando sguardi indispettiti dai clienti dei tavoli di fianco. Si scusò e poi
aggiunse a voce più bassa, allungandosi sul tavolo verso James: «Non volevo
essere indiscreta. É solo che, anche se ora mi sto convincendo che non sei mio
fratello, sento dentro di me che tra te e lui c'è un legame che però ancora non
riesco a spiegare. Capisci anche tu che tutto questo è troppo strano per essere
una semplice coincidenza, e io voglio scoprire la verità. Speravo solo di
ottenere anche il tuo aiuto, ma se riparti così in fretta non credo ci sia
abbastanza tempo.»
James non rispose e continuò a fissarla intensamente negli
occhi.
«Ho capito non hai intenzione di aiutarmi. Del resto è
comprensibile, i miei problemi non avrebbero motivo di interessarti.» concluse
Jessamine con tono piatto alzandosi dalla sedia.
«Non ho detto che non voglio aiutarti. Penso solo che questa
storia sia una follia, ma se ci tieni non posso dirti di no. Che gentiluomo
sarei?» disse il ragazzo invitandola a risedersi.
«Quindi mi aiuterai! Non sai quanto te ne sia grata!»
esclamò lei su di giri e poi aggiunse: «Significa che ti tratterrai di più in
città?»
«No, i miei piani non cambiano. La settimana prossima
partirò. Ma vedila in questo modo: avrai una settimana di tempo per risolvere
questo caso.» le disse James sfoderando un ampio sorriso.
«D'accordo, ma ora sbrighiamoci a pagare. Si è fatto tardi e
prima che tu vada a dormire voglio che tu venga con me.»
Lui la guardò perplesso: «E dove andiamo?»
«A casa mia. Voglio mostrarti una cosa, dato che ho capito
che ancora non mi credi.» spiegò Jessamine.
Dopodiché James andò a pagare la cena di entrambi con i
pochi spiccioli che aveva, poi i due ragazzi uscirono nel buio, diretti alla
casa della ragazza.
«Mi rendo conto solo ora che sto mostrando dove si trova
casa mia ad uno che conosco a malapena. Potresti essere un malintenzionato.»
affermò Jessamine mentre camminavano.
James scoppiò a ridere e disse: «Se domani sera vieni
derubata sai di chi è la colpa.»
Alcuni minuti dopo la ragazza stava infilando la chiave
nella serratura.
«Tu aspetta qui, torno tra un attimo. E se compare una
domestica dille che sei ospite mio.»
“Speriamo di no, altrimenti a
quest'ora chissà cosa penserebbe!” si disse James tra se e se, e poi prese ad
osservare i numerosi quadri attaccati alle pareti della sfarzosa villa.
Erano tutti circondati da grosse cornici dorate e la maggior
parte raffigurava paesaggi di mare.
Mare in tempesta, spiagge sabbiose, onde che si infrangono
su alte scogliere.
«Eccomi.» disse Jessamine ricomparendo nel salotto.
Il ragazzo si voltò verso il suono della sua voce e la vide
che stava scendendo da una grande scala in marmo. Teneva stretto qualcosa nella mano,
all'apparenza un foglietto di carta o un ritaglio di giornale.
Quando gli fu vicino disse con voce pacata: «James, vorrei
che guardassi questa fotografia.» e poi gliela porse.
Lui prese in mano quello che aveva creduto un pezzo di carta
e lo osservò. C'erano due soggetti che guardavano nella sua direzione e
sorridevano, come a prendersi gioco di lui.
James restò di sasso. Si avvicinò di più la foto agli occhi
e poi spalancò la bocca, sorpreso: «Ma è impossibile! Questo sono io!»
CAPITOLO 4
Il mio cavallo
trova forse strano
che io sosti ove
non c'è casa all'intorno,
tra i boschi e il
lago coperti di ghiaccio
nella sera più
buia dell'anno.
Fa tinnire i
sonagli delle briglie,
quasi a chiedermi
se sto sbagliando.
Non c'è altro
suono, fuori del fruscio
del vento lieve e
dei fiocchi che cadono.
Profondi e scuri
sono i boschi e belli,
ma ho promesse da
mantenere
e miglia da
percorrere, prima di dormire,
e miglia da
percorrere, prima di dormire.
-Robert Frost-
Il paesaggio fuori dal finestrino si stava trasformando,
lasciandosi indietro le case della città per dare spazio al verde della
campagna. James era in una delle carrozze del treno destinata ai passeggeri di
seconda classe, quale era lui, e contemplava assorto nei suoi pensieri la
brughiera che sfrecciava veloce davanti ai suoi occhi. Non aveva con se un
biglietto che gli permettesse di restare su quel treno, così tutte le volte che
avvertiva un rumore di passi nel corridoio si voltava inquieto, sperando di non
incrociare gli occhi del controllore.
Non era solo nella carrozza. C'era una donna sulla trentina
che lo osservava insistentemente attraverso la visiera di un Poke Bonnet sciupato
e aveva sulle ginocchia un bambino dai capelli biondissimi e il viso scavato
dalla fame.
Poi, esattamente di fronte a lui, c'era un uomo adagiato sul
sedile come fosse un letto, che aveva un cappello marrone calato sugli occhi e
una pipa in bocca. Sembrava addormentato ma era solo un'impressione poiché ogni
tanto alzava pigramente una mano per togliersi la pipa dalla bocca e liberare
in aria una nuvola di fumo.
James si strinse nel suo spolverino da viaggio, unica giacca
che possedesse, e lasciando che la sua testa si abbandonasse all'indietro cadde
nel torpore del sonno.
Venne svegliato mezz'ora dopo da un forte scampanellare e
dalla voce del capostazione che urlava: «Ultima fermata! Siamo a Dartmoor!
Tutti i passeggeri sono pregati di scendere!»
James ancora assopito si guardò intorno e si accorse di
essere rimasto solo nella carrozza.
Raccogliendo la sua borsa nera da terra e uscendo nel
corridoio, si affrettò a scendere dal treno.
La stazione ferroviaria nel quale era arrivata era piccola e
rudimentale, ed aveva un unico binario, quello sul quale era arrivato il treno
da Londra.
Individuando la piccola uscita, il ragazzo si affrettò in
quella direzione. Appena si ritrovò all'esterno provò immediatamente un forte
senso di libertà misto a smarrimento dovuto all'immensità del luogo in cui si
trovava. Infatti tutt'attorno a lui e al piccolo edificio della stazione non si
estendeva altro che campagna. Solamente prato, fiori e campi di grano che
proseguivano per chilometri all'orizzonte.
James con un sospiro si caricò la borsa in spalla e si
incamminò verso il sentiero che l'avrebbe condotto, di lì a qualche ora, nella
casetta dei suoi genitori.
Durante il lungo tragitto furono poche le persone che
incontrò, solo due contadini trasandati che parlottavano tra loro nel dialetto
aspro del luogo. Erano probabilmente senza denti poiché la voce usciva sibilata
dalla loro bocca, rendendo ciò che dicevano ancora meno comprensibile.
Il ragazzo li aveva sorpassati velocemente, sempre diretto
verso la casa dove aveva vissuto la sua infanzia e dopo circa quattro ore,
quando ormai il sole del mezzogiorno era alto nel cielo, finalmente era
arrivato davanti alla porta.
Prendendo una boccata d'aria per calmare il leggero
nervosismo che stava iniziando a provare, bussò leggermente sul legno rovinato.
Poco dopo la porta si aprì, e sulla soglia si venne a trovare una donna. Era
bassa, un po' gobba e indossava sulle spalle uno scialle di lana dall'aria
molto pesante, benché non facesse particolarmente freddo. Appena ebbe sollevato
lo sguardo su di lui gli occhi le si riempirono di lacrime e James non fece in
tempo a dire nemmeno una parola che lei l'aveva già stretto a se in un
abbraccio disperato.
«Mio figlio! Mi sei mancato così tanto. Sei tornato, sei
tornato!» e poi senza mollarlo continuò a ripetere la stessa frase fino a
quando le sue lacrime non furono esaurite.
Tutte le volte accadeva così.
La madre, da quando era malata, dimenticava la maggior parte
delle cose che le accadevano, così per lei era sempre come se suo figlio la
tornasse a trovare per la prima volta.
Accarezzandole dolcemente la schiena e continuando a tenerla
stretta James le sussurrò, chiudendo gli occhi: «Mi sei mancata anche tu
mamma.»
*****
«Quante ne desidera signorina? Otto?»
«No, ne prendo solamente cinque, grazie.» disse Jessamine
alla ragazza dietro al bancone, che le impacchettò le frittelle di mele in una
confezione.
«Si figuri, buona giornata!» rispose la commessa con un
caloroso sorriso appena lei ebbe pagato.
Dopo essere uscita da quella che era considerata la migliore
pasticceria di Londra, Jessamine si diresse verso il quartiere di Notting Hill,
dove si trovava l'enorme villa dei suoi genitori.
In mezzo a due ville altrettanto belle, la casa della sua
famiglia svettava come un castello. Era circondata tutt'attorno da un
rigoglioso giardino che la faceva apparire come una delle dimore descritte
nelle favole per bambini, il quale era stato premiato per quattro anni di fila
come giardino più bello della città.
La ragazza, prima di venire a trovare i genitori come faceva
di rado era passata a comprare il dolce preferito di sua madre, per mantenere
l'usanza famigliare.
Arrivata davanti al grosso cancello in ferro attraverso il
quale poteva intravedere una grande fontana, suonò il campanello e attese che
qualcuno le venisse ad aprire.
La porta laccata di nero della villa si socchiuse e una
donna con una cuffia bianca in testa esclamò: «Chi è là?»
«Sono Jessamine, apritemi.» disse la ragazza alla
governante, che la riconobbe e venne a spalancarle il pesante cancello
abbastanza per farla entrare.
«Buongiorno, come mai qui in visita?» le chiese la donna
mentre entravano in casa.
«Ho bisogno di parlare con i miei genitori, Chantal, mi sai
dire dove posso trovarli?»
Chantal scosse la testa raggrinzendo le sue piccole labbra
sottili e poi disse: «Ora i padroni non sono in casa. Sono usciti poco fa per
andare ad un importante ricevimento e non torneranno prima di stasera.»
Jessamine sospirò e poi lasciò nelle mani della donna il
pacchetto con le frittelle di mela, la quale si diresse verso la cucina.
«Gliele farò avere al loro ritorno.» disse Chantal indicando
la confezione dei dolci.
La ragazza la seguì e fermandola per una spalla le disse:
«Ho bisogno di aiuto. Devo fare alcune domande importanti ai miei genitori, ma
dato che non ci sono loro le farò a te. Tu hai sempre vissuto in questa casa,
saprai sicuramente le risposte.»
«Di che si tratta?» le chiese la governante osservandola con
diffidenza.
«Devi dirmi tutto ciò che sai sulla nascita di mio fratello
Alåen.»
Chantal si portò una mano alla bocca e poi sussurrò, con gli
occhi spalancati: «Lei signorina era venuta a trovare i signori Cavendish per
parlare a loro del signorino! Sapete bene che per i padroni questo argomento è
motivo di immenso dolore!»
«Sono i miei genitori, Chantal. Inoltre non solo per loro
questa faccenda è motivo di dolore, ma non per questo Alåen deve essere
dimenticato. Dunque cosa ricordi di lui?»
La governante abbassò lo sguardo verso il pavimento e mosse
un poco su e giù le punte dei piedi, poi rialzando gli occhi disse, con la voce
che le si era abbassata di diverse note: «Sono passati tanti anni...io non
ricordo nulla.»
«Non ricordi nulla, ma per favore! Come si dimentica la
nascita del figlio dei propri padroni? Eh, come si dimentica?» esclamò
Jessamine agitando furiosamente le mani. Poi a tono ancora più alto aggiunse:
«Chi è stato a chiederti di tacere? Sono stati loro, vero? I miei genitori ti
hanno chiesto di tenere la bocca chiusa o ti avrebbero buttato fuori, non è
così? Rispondi, Chantal!»
Ma la governante si era già allontanata dalla ragazza irata
con sguardo spaventato e si trovava già sulle scale per andare al piano
superiore quando disse, intimidita: «Io non so nulla, nulla capisce? Le
conviene andar via. Sono solo la governante e i padroni non ci sono. Se ne
vada, è meglio, se ne vada.» e mentre continuava a pronunciare quelle parole
agitava le mani in direzione della porta di ingresso.
Jessamine furibonda comprese che trattenersi ulteriormente
sarebbe stata solamente una perdita di tempo, così girò i tacchi e uscì dalla
casa, sbattendosi violentemente la porta alle spalle.
Mentre si allontanava però si ripromise che sarebbe tornata,
e la prossima volta non sarebbe stata sola.
CAPITOLO 5
Son sabbia i
minuti,
spensierato mortale,
da non lasciar
scorrere senza cavarne oro!
-Charles
Baudelaire-
Certe volte accade che quando si sta cercando una persona da
tanto tempo e non la si trova, per la frustrazione si inizia ad intravedere il
viso di quest'ultima in quello di altre persone, un piccolo barlume di falsa
speranza. Ora Jessamine si sentiva esattamente così.
Erano ormai quaranta minuti che stava camminando per le vie
di Londra del quartiere di Piccadilly, dove di solito suonava James, ma di lui
non c'era traccia.
Poco prima, appena aveva udito il suono soave di un violino,
la ragazza aveva iniziato a correre in quella direzione, ma era finita per
imbattersi in un cinquantenne con i baffi che per giunta le aveva ammiccato e
fatto un sorriso sghembo.
Lei si era allontanata velocemente ed era giunta fino
all'incrocio dove il giorno prima aveva visto suonare James. Quel giorno però
la strada era deserta, tranne che per i pochi pedoni i quali passavano svelti
senza fermarsi.
Sospirando e non sapendo più dove cercare, Jessamine si diresse
verso una piccola caffetteria sull'altro lato della strada, dove erano solite
fermarsi le persone dei ceti più abbienti per prendere il tè, e decise di
sedersi per fare una pausa. Si sistemò in una delle sedie all'esterno in modo
tale che se James di lì a poco fosse passato lei l'avrebbe visto.
«Buongiorno signorina, cosa desidera?» le chiese in quel
momento una giovane cameriera, che era già accanto al suo tavolo pronta per
prendere le ordinazioni.
«Una tazza di tè insieme a del latte. Me li porti separati,
per piacere.» ordinò Jessamine tenendo gli occhi sempre fissi sulla strada.
«Certamente, arrivano subito. Con permesso.» disse la
cameriera per poi tornare all'interno del locale.
Mentre attendeva le sue bevande e teneva d'occhio la strada,
la ragazza si mise ad osservare una bambina seduta nel tavolo accanto al suo.
Avrà avuto all'incirca cinque anni ed aveva i capelli ricci raccolti in una
lunga coda che ricadeva su un vestito elegante, fatto di pizzo.
Stava sbocconcellando dei biscotti e la madre, seduta di
fronte a lei, le parlava ammonendola in continuazione: «Brigitte, devi mangiare
con la bocca chiusa. E tieni la schiena dritta!»
La bambina in risposta obbediva quasi automaticamente, di
sicuro abituata a sentirsi rivolgere quegli ordini.
Distogliendo lo sguardo Jessamine ripensò alla rigida
educazione che avevano impartito anche a lei da piccola, ma in quel momento
arrivarono le sue ordinazioni quindi smise di pensare al passato e tornò con la
mente al presente.
La cameriera di prima ora le stava appoggiando le bevande
sul tavolo, così lei ne approfittò per parlarle: «Mi scusi, volevo chiederle
un'informazione.»
«Certo, sono a sua disposizione. Vuole ordinare
qualcos'altro dal menù?»
«No, desidero sapere da lei se per caso mentre oggi serviva
ai tavoli ha notato nella strada qui di fronte passare un musicista.»
«Un musicista dice?»chiese la cameriera assumendo un'aria
pensierosa. «A pensarci bene ce ne era uno ieri, signorina, e suonava anche
molto bene. Mi pare avesse i capelli neri ed era posizionato là.» e indicò
l'incrocio di fronte al negozio di libri.
«Proprio lui.» disse Jessamine annuendo. «E oggi non l'ha
visto?»
«No, oggi non ha suonato nessuno in questa strada ed è un
peccato perché ai clienti piace.»
«Va bene, grazie delle informazioni. Quanto le devo?» chiese
lei tirando fuori il portafoglio.
«Sono quattordici pound.»
«Ecco, tenga anche il resto.» disse lasciando una banconota
da quindici sul tavolo, per poi alzarsi mentre la cameriera la ringraziava.
Tornando in strada Jessamine decise di andare a guardare i
libri esposti nel negozio dell'incrocio, per cercare di distrarsi. Ma la verità
era che aveva un unico pensiero fisso in testa: trovare James.
Non sapeva perché quel giorno non si fosse recato lì per
suonare e nemmeno dove fosse, e questo le provocava un forte senso di
impazienza che le faceva ribollire il sangue nelle vene.
Inoltre sentiva su di se l'azione incontrastante del tempo,
che scorreva troppo velocemente, lasciandole sempre meno possibilità di
risolvere il caso. Restavano solo quattro giorni e poi James sarebbe partito,
proprio come aveva detto.
Allontanandosi dalla vetrina la ragazza si andò a sedere
desolata su una panchina lungo il marciapiede. Quel giorno nulla stava andando
per il verso giusto: prima non era riuscita a parlare con i suoi genitori e
aveva litigato con la governante, e ora James sembrava essersi dileguato
proprio quando lei aveva più bisogno di lui.
Maledicendo per l'ennesima volta la sua sfortuna, con lo
sguardo fisso in strada, Jessamine continuò ad aspettare.
Quando il sole stava iniziando a calare lei era ancora lì.
Il pomeriggio era passato lentissimo, tra tè al bar e
vetrine dei negozi per passare il tempo, ma di James ancora nessuna notizia.
Più volte la ragazza aveva pensato di rinunciare e tornare a
casa, ma poi alla fine era rimasta, convinta che prima o poi lui sarebbe
arrivato.
In quel momento stava camminando a passo lento per la
stanchezza lungo la stessa via principale, continuando a ripetersi che tutti i
londinesi passavano di lì, ma a quel punto, decisamente esausta, iniziò ad
urlare il nome del ragazzo a voce alta: «James!» chiamò scandendo le parole
davanti a se, ma era come parlare al vento.
Qualcuna delle persone nella via si voltò incuriosita o
infastidita, ma nessuna sembrò darle attenzione. Dopo che ebbe ripetuto invano
il nome ancora qualche volta, si decise ad incamminarsi per tornare a casa,
delusa.
Aveva appena imboccato una piccola via laterale quando una
voce disse, proprio di fianco a lei: «Stai cercando James il musicista?»
Lei colta alla sprovvista si voltò di scatto e vide subito
chi era stato a farle quella domanda.
C'era un ragazzo seduto in alto sullo schienale di una
panchina che la stava osservando. Indossava vestiti logori, bucati sulle
ginocchia, e teneva le mani in tasca.
«Allora? Cerchi James il musicista?» ripeté quello con voce
piatta, senza un minimo di educazione.
«Sì, cerco il James che suona il violino, se è la stessa
persona di cui parli tu.» rispose lei mantenendo le distanze dall'individuo.
Non sembrava un tipo losco, ma aveva un modo di fare sgarbato che l'aveva
subito messa in guardia.
«Credo proprio che stiamo parlando della stessa persona.»
disse lui e poi fece un balzo e si avvicinò a lei. Jessamine istintivamente
indietreggiò e a quel punto il tipo scoppiò a ridere in una risata roca,
mostrando una dentatura rovinata. «Hai paura di me?»
Lei evitò la domanda e invece gli chiese: «Come conosci
James?»
«Questa domanda dovrei farla io a te. Mi sembra più
appropriata.»
«É un mio amico e ho assolutamente bisogno di vederlo.»
Il ragazzo scoppiò nuovamente a ridere: «Amico non credo
proprio. Sembri piuttosto ricca per essere amica di uno come lui.» e
pronunciando la parola “ricca” i suoi occhi si illuminarono pericolosamente.
Cercando di mantenere la calma Jessamine replicò: «E invece
è così e devo incontrarlo. Per favore puoi dirmi, se lo sai, dove posso
trovarlo?»
«Oh, dove sia in questo momento non lo so.» iniziò a dire il
tipo toccandosi il mento per assumere un'aria pensosa. «Ma posso dirti che io e
James ci conosciamo.»
La ragazza, che aveva già intuito quell'informazione, disse:
«Allora saprai dove abita, o per lo meno dove alloggia.»
Quest'ultima frase provocò un attacco di tosse e poi
nuovamente una risata nello strano ragazzo, che quando riuscì a parlare esclamò:
«Non avrai mica intenzione di andare a casa sua.»
«In realtà era proprio la mia intenzione e non capisco cosa
ci sia di sbagliato.» dichiarò lei lievemente irritata dalle parole del tipo.
«Beh vedi, c'è di sbagliato che la casa dove alloggia il nostro
caro James sia casa mia, e io non faccio entrare degli sconosciuti. Per di più
sei anche una ragazza ricca e per quanto ne so potresti essere in contatto con
i piani alti. Non vorrei che per colpa tua la casa mi venisse requisita.» disse
lui.
Jessamine rimase un attimo sconcertata da quell'informazione
ma poi si scosse e disse: «Capisco. Presumo che viviate nelle case popolari.»
«Sono là in fondo a questa strada. Non mi sembri una che
vuole ficcare il naso, comunque. Ma sappi che non ti dirò quale è casa mia. Se
andrai in quel posto aspetterai James fuori.» concluse il ragazzo, che poi però
fece un sorriso beffardo e sussurrò: «A meno che tu non preferisca venire con
me in una stanzetta appartata.»
Scacciando la mano dell'individuo che stava per toccarla
disse amareggiata: «No, grazie. Vado da sola.»
Non ci mise molto a raggiungere il quartiere delle case
popolari e capì immediatamente di essere arrivata dal cambiamento dell'ambiente
intorno a lei.
C'erano donne per terra in strada vestite solamente con degli
abiti succinti o addirittura stracci, bambini scarni abbandonati contro i muri
che non avevano abbastanza forze per alzarsi.
A Jessamine sembrava di essere entrata nell'Inferno, non in
un'altra zona della città.
Voltando lo sguardo a destra e a sinistra verso le case che
costeggiavano il marciapiede non si sorprese di vedere molti locali, dentro i
quali si scorgevano uomini che giocavano d'azzardo circondati da donne mezze
nude speranzose di ricevere qualche soldo.
La ragazza si rese conto che per lei era molto pericoloso
camminare da sola in quel luogo.
Fortunatamente non c'era molta gente per strada, ma di lì a
poco sarebbe calata la notte e lei sarebbe dovuta tornare a casa se non voleva
fare una brutta fine.
Un po' intimorita urlò non troppo forte il nome di James,
attirando l'attenzione di alcuni bambini che stavano giocando con dei
bastoncini sul ciglio della strada.
Poi sentì provenire da poco più avanti di lei un urlo
agghiacciante di donna, che le fece rizzare i peli sulla nuca.
Con il respiro mozzo Jessamine decise di non rimanere in
quel posto un minuto di più. Così si voltò e inizio a camminare a passo svelto
tornando da dove era venuta, volenterosa di allontanarsi il più velocemente
possibile dall'urlo udito poco prima. Stava per salire sul marciapiede quando
da una via laterale alla sua destra spuntò improvvisamente un'ombra nera che si
fermò di scatto davanti a lei. Cacciò un urlo stridulo e una fitta dolorosa di
paura le trafisse il cuore. Iniziò ad indietreggiare terrorizzata quando, mettendo
meglio a fuoco il volto dell'ombra si accorse di conoscerla.
«James.» disse in un sussurro, e per poco non si metteva a
piangere per il sollievo e la tensione provata prima.
Lui sempre restando immobile si schiarì la voce e poi scandì
con tono di rimprovero: «E tu cosa ci fai qui?»
CAPITOLO 6
L'ira del gatto è
bella,
bruciante di pura
fiamma felina,
pelo irto e
scintille blu,
occhi fiammanti e
crepitanti.
-W.S. Borroughs-
«Tu sei venuta a cercarmi qui? Ma cosa ti è saltato in
mente? É pericoloso e lo sai!» esclamò James allargando furiosamente le
braccia.
Jessamine stava per replicare, ma in quel momento si udì una
risata stridula provenire da una casa poco lontano da loro e lei non poté fare
a meno di rabbrividire. Anche James sembrava allarmato e sbuffando le prese il
polso e cominciò ad allontanarsi dal quartiere pericoloso.
La ragazza non sapeva cosa fare e dato che lui sembrava
molto arrabbiato preferì restare in silenzio.
Quando i due ragazzi arrivarono in una specie di parcheggio
pieno di carrozze in sosta si fermarono e James tirò fuori una sigaretta dalla
tasca e se la accese.
Dopo alcuni minuti di silenzio, interrotti solamente dal
leggero soffiare del ragazzo, egli disse: «Allora, spero tu avessi un buon
motivo per essermi venuta a cercare in un posto del genere.» poi a voce più
bassa aggiunse: «Non penso ci sia bisogno che io ti dica che sei stata molto
fortunata. Se avessi incontrato qualcuno per strada non penso si sarebbe fatto
molti scrupoli a prenderti e farti ciò che solo Dio sa.»
E detto questo il ragazzo abbandonò la schiena contro il
fianco di una carrozza, con Jessamine di fronte che lo osservava imbarazzata
per la predica.
«Mi dispiace. Ero venuta a cercarti perché avevo bisogno del
tuo aiuto e...»
In quel momento qualcuno si schiarì la voce dietro di lei.
«Bene bene. Vedo che vi siete trovati. Allora James non
vorresti presentarmi la tua bella ragazza? Anche se devo confessarti di averla
già conosciuta prima.» la interruppe un uomo alle sue spalle dall'accento
famigliare.
Voltandosi di scatto la ragazza si trovò a pochi centimetri
dal ragazzo che poco prima le aveva dato le indicazioni per trovare James.
Quell'individuo ora le stava sorridendo e James lo squadrava con una strana
espressione sul volto: «Damian, come sarebbe a dire “ci siamo già conosciuti
prima”?»
Damian scoppiò a ridere e poi avvicinandosi a lui gli diede
una pacca amichevole sulla spalla, dicendogli: «Sì, la tua accompagnatrice non
tel ha detto? É merito mio se è riuscita a trovarti. Diciamo che era un pochino
sperduta e io le ho indicato la retta via.»
James cercando di mantenere la calma lanciò un'occhiata
truce a Jessamine che immediatamente comprese quanto fosse arrabbiato. «É
andata così Jessamine?»
Lei evitando di guardarlo negli occhi rispose: «Sì, è andata
così.»
A quella risposta il ragazzo sospirò ma poi voltandosi verso
Damian, che stava ancora sorridendo, disse cercando di sembrare sincero: «Beh
in questo caso devo proprio ringraziarti, amico. Londra è grande e se tu non le
avessi detto dove abitiamo forse non ci saremmo incontrati. Ora che è finito
tutto bene però, noi dovremmo andare.»
A sentire quelle ultime parole il sorriso scomparve
immediatamente dal viso di Damian, che divenne cupo: «Non così in fretta,
James.» esclamò «Sai bene di non avermi ancora pagato il tuo soggiorno a casa
mia e penso sia giunto il momento di sborsare i soldi.»
James sollevandosi dalla carrozza alla quale era appoggiato
disse: «Ora non ho i soldi qui con me ma ti pagherò il prima possibile.»
Il ragazzo fece un sorriso sghembo: «Oh, ma se preferisci
può pagare lei per te. Scommetto che vale una fortuna.» disse indicando
Jessamine.
Lei istintivamente fece qualche passo indietro per
allontanarsi e James le si parò davanti per nasconderla alla vista di Damian.
«Ti porterò i soldi che mi hai chiesto e anche di più se lo
ritieni giusto, ma la ragazza lasciala in pace. É di famiglia importante e ti
metteresti solo nei guai.»
«E va bene, ma voglio il doppio della cifra iniziale.» disse
Damian.
James annuì e prese Jessamine per un braccio. Poi facendo un
cenno di saluto a Damian cominciò a camminare verso la via che avrebbe condotto
la ragazza a casa, trascinandosela dietro.
Dopo che si furono allontanati abbastanza dal ragazzo James
mollò la presa e iniziò a dire: «Non ci posso credere! Tra tutte le persone che
potevi incontrare dovevi parlare proprio con Damian? Adesso mi hai cacciato in
un bel guaio! Non riuscirò mai a guadagnare abbastanza soldi per pagarlo e a quel punto chissà cosa succederà!»
Jessamine cercò di allungare una mano verso di lui per
prendergli la spalla ma James si scostò irritato, allora lei disse: «Senti, mi
dispiace. Oggi ti ho aspettato tutto il giorno nella piazzetta dove di solito
suoni ma tu non c'eri, dunque sfinita stavo camminando e lui, Damian, mi ha fermato
dicendomi di conoscerti. Tu cosa avresti fatto al posto mio?»
James sospirò per l'ennesima volta e poi disse: «Lasciamo
stare. Ormai è andata così e riuscirò a saltarci fuori in qualche modo.»
«Per i soldi non devi preoccuparti, te li darò io. In ogni
caso te li devo, come ricompensa per ciò che stai facendo per me.» spiegò
Jessamine sorridendo.
James la osservò intensamente: «Non ti avrei mai chiesto dei
soldi. Odio sentirmi in debito, e nemmeno ora te li chiederò se non saranno
davvero necessari.»
«Va bene.» annuì lei contenta che l'atmosfera tra loro fosse
tornata pacifica.
«E ora spiegami, come mai avevi così urgenza di incontrarmi
finendo persino in pericolo?» le chiese James riprendendo a camminare.
Ora si trovavano in una via molto spaziosa con negozi di
tessuti di ogni colore, che rendevano l'atmosfera allegra.
Jessamine si affiancò a James e lo prese a braccetto,
dopodiché spiegò: «Stamattina sono andata a casa dei miei genitori. Il tempo
stringe così avevo deciso di indagare parlando con loro, ma non erano in casa.
In compenso però ho parlato con la governante, che si è comportata in modo
molto strano.»
«Cioè?»
«Quando le ho chiesto di Alåen e della sua nascita ha
iniziato a dire di non saperne nulla ed è scappata via.»
James osservandola con sguardo acceso disse: «Curioso. É
interessante anche il fatto che pure io stamattina sia andato a trovare i miei
genitori.»
Jessamine spalancò gli occhi sorpresa e lasciò che il
ragazzo continuasse a parlare.
«Sono andato là per indagare e non ci crederai mai ma mi è
successa una cosa simile alla tua.»
«In che senso?» chiese lei interessata.
«Quando ho chiesto a mia madre se avesse mai conosciuto un
ragazzo di nome Alåen di aspetto molto simile al mio, lei ha iniziato a
piangere e ad urlare fintanto che non ha attirato l'attenzione di mio padre, il
quale si trovava nella stanza accanto. Lui cercando di calmare mia madre mi ha
chiesto cosa fosse successo, e quando ho detto anche a lui il nome 'Alåen' il
suo viso è diventato una maschera di ferro e alla fine mi ha cacciato via.»
«Non ci posso credere!» esclamò Jessamine «Sai cosa vuol
dire questo vero? Che anche i tuoi genitori sanno qualcosa che non vogliono
dire.»
«Oh, certo che sanno. Ma io ho scoperto qualcosa di più.»
I due ragazzi erano ormai giunti davanti al portone della
casa della ragazza e stavano rallentando il passo, fino a che non vi si furono
fermati davanti.
«Forza non tenermi sulle spine.» lo incitò lei.
James aveva uno sguardo fiero:«Prima di andarmene sono
riuscito a frugare un poco nei vari cassetti in casa e nascosta dentro uno dei
mobili della camera da letto dei miei genitori ho trovato questa.»
James le porse una fotografia stropicciata. Aveva un angolo
strappato, ma quando la ragazza la prese in mano riuscì comunque a vedere cosa
raffigurasse.
«É un neonato.» borbottò lei avvicinandosi agli occhi
l'immagine del bambino, per osservarlo meglio. Aveva i capelli neri ed era
sdraiato in una culla.
«Gira la foto.» le suggerì James con voce concitata.
Lei fece ciò che le era stato detto e notò sul bordo del
retro bianco una scritta in bella calligrafia che recitava: “Alåen, 7-05-1855”.
Portandosi una mano alla bocca alzò lo sguardo per
incontrare gli occhi di James, che la stavano già scrutando ansiosi di vedere
la sua reazione.
Jessamine però riguardando la foto disse: «C'è un errore.
Questo neonato nella foto non può essere Alåen. Lui è nato il 13 febbraio
1856.»
James si schiarì la voce e poi disse: «Infatti il 7 maggio
1855 sono nato io.»
CAPITOLO 7
Mia cara, forse
non odi come
lo stridente stridore
del mondo
è un eco fallace
delle trionfanti
armonie?
O forse, mia cara,
non senti
che solo una cosa
v'è al mondo:
ciò che un cuore
a un cuore confida
in un muto saluto?
-Vladimir
Sergeevic Solov'ev-
«C'è qualcosa che ci sfugge, ma non riesco a capire cosa.»
borbottò Jessamine seduta in una delle poltrone in velluto rosso della sua
camera.
James annuì con sguardo assente. Era seduto anche lui in una
delle poltrone ed aveva stretta in mano la fotografia che il giorno prima aveva
trovato nella fattoria dei suoi genitori, e la contemplava come se di lì a
qualche minuto l'immagine potesse cambiare rivelandogli nuovi segreti.
Quando la sera prima l'aveva mostrata a Jessamine lei aveva
avuto esattamente la reazione che si era immaginato, diventando bianca come un
cencio e sgranando gli occhi. Dopo, essendo ormai notte tarda, i due ragazzi si
erano salutati dandosi appuntamento la mattina seguente nella villa della
ragazza. Così ora James si trovava nell'enorme stanza padronale della villa.
«Ricapitoliamo un attimo.» disse alzandosi in piedi.
«Abbiamo trovato la foto di un neonato con la dichiarazione che si tratta di
Alåen, ma la data riferita alla sua nascita non corrisponde a quella vera, ma
alla data di quando sono nato io.»
Jessamine si mise una mano sulla fronte e socchiuse gli
occhi: «Mi sta venendo mal di testa.»
Il ragazzo la ignorò e continuò il suo ragionamento: «Ora
resta da capire perché i miei genitori possedessero quella foto e soprattutto
che collegamento ci sia tra la mia nascita e quella di tuo fratello.»
La ragazza si alzò in piedi e ponendosi di fronte a James
gli prese dolcemente le mani tra le sue. «Non riusciremo mai a risolvere questa
questione da soli.» disse Jessamine guardandolo intensamente negli occhi. «Ho
tante idee per la testa che pur essendo assurde sembrano essere le uniche
risposte plausibili, eppure mi spaventano.»
«Ti ascolto.» le sussurrò James.
«Vedi, sembra incredibile, ma se tu fossi mio fratello? Tu e
Alåen vi assomigliate troppo per non avere almeno un legame di parentela, e la
foto che abbiamo trovato non fa che confermare questa teoria.»
James liberò le sue mani da quelle della ragazza ed esclamò
voltandole le spalle: «É una follia. Se io fossi tuo fratello, allora dimmi
perché ho dovuto vivere in una famiglia senza soldi, mentre tu ne hai
abbastanza per tutta la vita. Ho dovuto lavorare nelle miniere da bambino,
spaccandomi la schiena per portare il cibo a casa.» poi lasciandosi andare in
una poltrona disse con voce ferma: «Quello che hai detto è impossibile.»
«Ma pensaci! E se ci avessero divisi alla nascita? Se
fossimo tutti e tre fratelli? Sai cosa vorrebbe dire questo, vero? Potresti
crearti una nuova vita, ricominciare...»
«Basta!» la interruppe James con voce dura. «Tu non sai cosa
stai dicendo, Jessamine. Non capisci cosa mi stai offrendo? La cosa che ho
sempre desiderato, una vita che non ho mai avuto. Ma ti dico io come andrà:
alla fine di tutta questa storia, quando scopriremo la verità, l'unica a
beneficiarne sarai tu. Io tornerò alla mia lurida esistenza, vivendo per strada
e mangiando qualche volta a settimana. Quindi, per favore, non parlare di cose
che non sai.»
Jessamine sentendo quelle parole avvertì una fitta di dolore
al petto, ed andandosi a sedere sul letto si prese disperatamente la testa tra
le mani.
«Mi dispiace, non era mia intenzione darti false speranze,
cercavo solo di trovare una risposta.»
In quel momento qualcuno bussò alla porta della camera così
Jessamine urlò: «Avanti!»
La porta si aprì ed entrò Lorrie, che fermandosi a pochi
passi dai due ragazzi chiese gentilmente: «Signorina, ero venuta a chiederle se
lei e il suo ospite gradivate qualcosa da mangiare o da bere.»
La ragazza agitò una mano in aria in segno di rifiuto e
congedò la domestica, ma poi ripensandoci disse: «Anzi, Lorrie, porta qualcosa
da mangiare per James, il mio ospite.»
«Subito signorina.» e detto questo la donna uscì dalla
stanza, per poi ritornare poco dopo con in mano un vassoio colmo di dolcetti e
biscotti.
«Ti ringrazio, ora puoi andare.» disse Jessamine dopo che la
domestica ebbe appoggiato il cibo su un tavolino al centro della stanza.
James si avvicinò al vassoio con gli occhi che tradivano il
suo desiderio e dopo aver guardato Jessamine in segno di ringraziamento prese
un biscotto e iniziò a mangiare.
«Da quanto tempo era che non mettevi qualcosa sotto i
denti?» gli chiese la ragazza.
«Da ieri pomeriggio. Mi è andata di peggio.» spiegò lui
prendendo un altro dolcetto.
«Come fai a resistere senza mangiare per giorni interi?»
«Abitudine, presumo.»
Passarono alcuni minuti in cui i due ragazzi rimasero in
silenzio, James continuando a mangiare e la ragazza osservando fuori dalla
finestra il sole mattutino in cielo coperto dalle nuvole.
Ad un tratto un uccello passò velocemente davanti alla
finestra e Jessamine disse, volgendo lo sguardo verso il ragazzo: «Riguardo al
discorso di prima, è evidente che c'è qualcosa di sbagliato nelle informazioni
che possediamo.»
James la guardò incuriosito: «Pensi che ci siano sotto delle
menzogne?»
«É proprio quello che sto pensando.» rispose la ragazza
annuendo.
«Allora dobbiamo scoprire la verità.»
Jessamine si alzò dal letto e dirigendosi verso la porta
della stanza disse con voce ferma: «Andiamo nel luogo dove le menzogne sono di
casa: dai miei genitori.»
CAPITOLO 8
Per l'uomo arriva
un momento in cui non ha più
la libertà della
scelta, non perché ha scelto, ma
perché non l'ha
fatto, il che si può anche
esprimere così:
perché gli altri hanno scelto per lui,
perché ha perso se
stesso.
-Soren
Kierkegaard-
Le nuvole in cielo avevano incominciato a coprire il sole ed
un venticello freddo muoveva la foglie degli alberi e anche i capelli di
Jessamine. Era incredibile come il tempo potesse cambiare velocemente a Londra,
trasformando una giornata soleggiata in una piovosa in dieci minuti.
James che camminava accanto alla ragazza si teneva ben
stretto sulla testa il cappello che poco prima gli aveva prestato lei, per
evitare che l'aria forte se lo portasse via.
«Sta arrivando un temporale.» disse annusando l'aria, che
odorava di pioggia.
«Sì, meglio se ci sbrighiamo.» esclamò Jessamine aumentando
il passo. Il ragazzo la imitò.
Mancava poco ormai per raggiungere la villa dei genitori
della ragazza, che distava poco a piedi dalla sua. Dopo qualche minuto infatti
lei esclamò: «Eccoci arrivati.»
Fermandosi davanti al grande cancello in ferro
dell'abitazione, allungò una mano per suonare il campanello, ma James la fermò
prendendogliela in una stretta incerta: «Aspetta...»
Jessamine voltandosi verso di lui per guardarlo in faccia
notò che aveva un espressione preoccupata.
«James non devi essere nervoso. Sarò io a parlare con loro.»
e poi aggiunse stringendogli la mano: «Anzi, quando ti vedranno rimarranno così
sconvolti che non avranno molto da dire.»
Il ragazzo annuì ma abbassò lo sguardo mentre lei suonava il
campanello.
Dopo pochi minuti si udirono rumori provenire dall'interno
della casa e la tenda della finestra che dava sul cortile si mosse lievemente.
Due occhi si erano messi ad osservare per un attimo e poi erano scomparsi.
Il portone della villa avrebbe dovuto aprirsi, ma invece
rimase chiuso. Jessamine risuonò infastidita il campanello.
«Forse non sono in casa.» azzardò James.
«Oh, certo che ci sono. L'hai vista anche tu la persona alla
finestra. Semplicemente mi hanno vista e non vogliono aprirmi.» spiegò la
ragazza con tono duro.
In quel momento un tuono scoppiò sopra la loro testa
assordandoli. Il vento aveva iniziato a soffiare più forte, facendo sentire il
suo potente ululato.
«Chantal apri!» urlò Jessamine stringendo le sbarre del
cancello, che però rimase immobile. «Maledizione, se non riusciamo a parlare
con loro non otterremo mai le risposte che cerchiamo!»
Proprio mentre i due ragazzi stavano per arrendersi la porta
di ingresso si socchiuse e la governante uscì dalla grande villa, oltrepassando
il giardino per venire verso di loro.
Non si era ancora accorta che Jessamine non era sola, poiché
James era coperto dal pilastro in mattoni del cancello.
Poco prima che lei li raggiungesse la ragazza gli bisbigliò:
«Non toglierti il capello.»
Lui annuì.
Chantal aprì il pesante cancello emettendo uno sbuffo di
fatica e disse: «Entra, i tuoi genitori ti stanno aspettando.»
Aveva una voce seccata e fissava Jessamine con uno sguardo
di rimprovero. Poi si accorse di James, che uscì dall'ombra per avvicinarsi.
«Oh, chi è questo gentiluomo che ti accompagna?» chiese
Chantal indicandolo, mentre lui si calava più giù il cappello sugli occhi.
«Si chiama James, vorrei presentarlo ai miei.» spiegò
Jessamine sorpassando la governante ed inoltrandosi nel giardino per arrivare
in casa.
La donna lanciò ancora qualche occhiata al ragazzo, che ora
stava seguendo Jessamine, e poi si affrettò per precederli.
Quando entrarono nella villa disse: «Per di qua, in
salotto.»
Poi facendo piccoli passi ed entrando nel locale ben
arredato annunciò a voce alta: «Padroni, c'è vostra figlia con il suo uomo, e
vorrebbe presentarvelo.»
Jessamine entrò nella sala e vide i suoi genitori che la
osservavano seduti su un ampio divano color crema e scorgendo il sorriso
beffardo sul volto di sua madre si affrettò a specificare: «Non è il mio
fidanzato.» poi voltandosi indietro esclamò: «James vieni avanti.»
Il ragazzo, che stava ammirando gli arredi a bocca aperta,
si affrettò ad affiancare la ragazza.
«Volevo presentarvi questo gentiluomo che ho avuto la
cortesia di conoscere.» proseguì lei.
Il padre della ragazza si agitò leggermente sul divano e
disse: «Bene, forza, presentacelo.»
E James a quelle parole fece abilmente un inchino e nel
frattempo si tolse il cappello dalla testa, mostrando il suo volto.
La reazione fu immediata.
La signora Cavendish lanciò un urlo acuto e penetrante, e
alzandosi di scatto dal divano andò a posizionarsi nell'angolo più lontano del
grande salone, dove si mise la mani sulla bocca per soffocare un altro urlo.
Il signor Claudius Cavendish invece era rimasto sul divano,
e se in un primo momento il suo viso era stato percorso da un'espressione
sconcertata, ora era tornato al suo solito pallore, anzi pareva persino
annoiato. Questa reazione non piacque a Jessamine, che lanciando un'occhiata
penetrante all'uomo che aveva di fronte disse tra i denti: «Padre, mi sorprende
il tuo comportamento. Penso tu ti sia reso conto a chi è uguale questo
ragazzo.»
L'uomo alzando un sopracciglio esclamò: «Illuminami.»
«Oh, ma per favore! Fai pure finta di nulla! Ti sei accorto
benissimo che il ragazzo che mi accompagna è identico ad Alåen!» disse
Jessamine allungandosi verso il padre.
Il signor Cavendish si alzò in piedi per sovrastare la
figlia, ma mantenne sempre la calma
snervante che lo caratterizzava: «Figlia mia, devo proprio dirti che ti stai
sbagliando. Questo bel ragazzo assomiglia ad Alåen quanto un pesce assomiglia
ad un gatto.»
Jessamine spalancò la bocca per lo stupore e poi indicando
furiosamente James urlò: «Guardalo, è identico! Padre, io lo so che mi nascondi
qualcosa, me l'hai sempre nascosto!»
James nel frattempo era in piedi immobile che osservava la
scena imbarazzato, sentendosi un intruso ad ascoltare quella lite famigliare e
totalmente fuori luogo in quella villa sfarzosa.
Dopo alcuni minuti Claudius sospirò e appoggiando una mano
sulla spalla di lei disse: «Jessamine, evidentemente non ti sei ancora ripresa
dopo la morte di tuo fratello. Credevo che ormai avessi superato il trauma, ma
è chiaro che non è così. Devi farti aiutare. Se mi permetti posso portarti da
un buon dottore...»
«Un buon dottore! Tu mi credi pazza! É incredibile.» esclamò
lei allontanandosi dalla mano del padre, per poi scoppiare in una risata
isterica: «James, per favore, diglielo anche tu. Ti ho mostrato quella foto di
mio fratello. Diglielo che è incredibilmente uguale a te.»
Il ragazzo mettendosi le mani in tasca con fare impacciato
rispose: «Sì signore. Confermo ciò che sta affermando sua figlia.»
Il signor Cavendish, avvicinandosi lentamente a James,
quando ebbe il viso a pochi centimetri da suo gli puntò un dito sul petto e a
voce bassa disse: «Tu, lurido verme, non infiltrarti negli affari della mia
famiglia. Come hai osato avvicinarti a mia figlia e mettergli le tue menzogne
in testa!»
«Padre!» esclamò Jessamine indignata, cercando di dividere i
due uomini, ma Claudius continuava a fissare James con sguardo duro. A sua
volta il ragazzo aveva assunto un 'espressione truce, che presagiva la sua
imminente perdita di pazienza.
«Era meglio se te ne stavi in quella tua sporca casa di
campagna.» sputò il signor Cavendish voltandosi poi a guardare la moglie,
subito dopo aver capito di essersi tradito.
Lei era ancora ferma nel suo angolo e stava pian piano
assumendo uno strano colorito verdognolo in viso. A sentir quell'ultima frase
di sui marito emise un altro debole urlo di sorpresa.
James stupito anche lui disse: «E lei come fa a sapere che
vengo dalla campagna?»
Il signor Cavendish non rispose e si voltò per dargli le
spalle.
«Me lo dica! Che cosa sa lei della mia famiglia?» urlò il
ragazzo, che ormai aveva dimenticato le buone maniere e voleva solamente
scoprire la verità.
«Vi prego, basta.» disse in quel momento una voce che fino
ad allora non aveva ancora parlato.
Tutti si fermarono e calò un silenzio tombale mentre i
presenti si voltavano verso la signora Cavendish, che ora si stava lentamente
avvicinando a loro.
Indossava un pesante vestito dorato che strusciava sulla
moquette mentre camminava ed aveva i lunghi capelli neri raccolti in riccioli
voluminosi.
Posizionandosi al centro della sala tra i vari presenti
prese un braccio a Jessamine e le disse con voce spenta: «Penso dovresti andare
a casa.»
«Non se ne parla nemmeno, madre. Non me ne andrò senza
risposte. E basta con le menzogne.» disse la ragazza mantenendo gli occhi fissi
in quelli neri della donna.
«Benissimo. Caro, siediti.» ordinò Cornelia Cavendish
invitando delicatamente il marito a sedersi con lei. Non aveva ancora del tutto
perso il colorito verdastro in viso ma ora sembrava aver preso sicurezza e
giaceva altera sul divano.
A James e Jessamine non era stata offerta nessuna sedia
quindi rimasero in piedi, in attesa che i due iniziassero a parlare.
«Avevamo detto che questa storia sarebbe rimasta segreta.
Non doveva saperlo nessuno.» disse Claudius rivolto alla moglie.
«Doveva andare così, ma ormai non possiamo più nascondere la
verità.» spiegò la donna.
Jessamine con la voce piena di tensione disse: «Forza,
parlate.»
«Spero che alla fine sarai soddisfatta della tua decisione,
figlia mia, perché non sempre sapere è un bene.» disse Cornelia, e poi cominciò
a raccontare
CAPITOLO 9
Voi conoscerete la
verità, e la verità vi renderà folli.
-Aldous Huxley-
«Prima di cominciare a raccontarti tutta la verità vorremmo
dirti che non doveva andare così, ma è stato Alåen che ci ha costretti a fare
ciò che alla fine abbiamo fatto.» cominciò a spiegare la madre di Jessamine.
Il padre stava semplicemente seduto accanto alla moglie con
sguardo assente e sembrava stesse cercando di non ascoltare.
La donna sospirò e poi iniziò a raccontare: «Avevamo bisogno
di un primogenito maschio. Tutte le famiglie importanti devono averne uno e già
venti anni fa, benché fossimo giovani e inesperti, io e tuo padre eravamo una
delle coppie più influenti e conosciute di tutta Londra. Non potevamo
permetterci che il nostro primo figlio fosse una femmina. Poi rimasi incinta.
Ovviamente in quei giorni non potevo sapere se il bambino che portavo in grembo
fosse maschio o femmina, ma io e Claudius non potevamo rischiare accettando
quest'incertezza. Pensammo molto ad una soluzione ma il tempo passava. Poi mio
marito ebbe un'idea.»
La donna indicò James, e poi rivolta a lui proseguì: «Vedi,
la tua famiglia da moltissimi anni ha un debito con la nostra. Ci sono documenti
i quali attestano che la famiglia Evans debba restituire una somma contingente
di denaro alla famiglia Cavendish. Sono questioni molto vecchie, si parla di
dissapori tra i tuoi nonni e quelli di Jessamine. Comunque, grazie a noi,
vent'anni fa il debito è stato estinto. Infatti venimmo a sapere che la signora
Evans aveva avuto due gemelli maschi, ma purtroppo in quegli anni si era
ammalata e loro avevano smesso di pagarci mensilmente il debito poiché suo
marito aveva deciso di impiegare quei soldi nella cura della moglie e nella
crescita dei suoi figli. Però restava il fatto che in qualche modo loro
dovevano continuare a pagare, e così come pegno ci prendemmo uno dei due
bambini, che valse tutti i soldi che restavano da pagare.»
Jessamine che era in piedi e osservava dall'alto la madre
aveva iniziato a sbiancare durante il racconto e in quel momento fu sul punto
di crollare a terra. James che le era accanto la sorresse, tenendole una mano
attorno alla vita.
«Madre, ma questo non è possibile...vuol dire che...» iniziò
a dire la ragazza, ma era troppo sconvolta per pronunciare una frase compiuta.
«Significa che Alåen non è mai stato tuo fratello, figlia
mia, o per lo meno non di sangue.» disse la donna che aveva un tono tranquillo
come se stesse parlando di scarpe, ricevimenti o vacanze.
«Ma permettimi di continuare a raccontare, poiché questo non
è che l'inizio.» «Dicevamo che io e tuo padre abbiamo accolto Alåen in questa
casa. Per prima cosa gli abbiamo cambiato la data di nascita dandogli un anno
in meno, per differenziarlo dal gemello, poi era diventato a tutti gli effetti
il nostro primogenito. A quel tempo aveva tre anni e sapevamo che una volta
cresciuto non avrebbe ricordao nulla del poco tempo trascorso nella vecchia
famiglia.
Qualche mese dopo sei nata tu, ed eri una bellissima
bambina, ma vederti non aveva fatto altro che confermarci che la nostra azione
era stata giusta. Dio era dalla nostra parte.»
«Come può pronunciare il nome di Dio in questo modo,
invano.» disse piano James, che fino a quel momento era stato in silenzio.
Probabilmente aveva un'infinità di pensieri per la testa ma erano così tanti
che era impossibile anche solo prenderne in considerazione uno.
La madre di Jessamine, in risposta, disse solo: «Prendetevi
una sedia, ragazzi.»
Dopo che i due ebbero obbedito proseguì, rivolta alla
figlia: «Sono stati anni tutto sommato belli, quelli della vostra infanzia. Tu
e Alåen andavate d'amore e d'accordo e credevate, naturalmente, di essere
fratello e sorella. Poi però Alåen crebbe e per noi diventava sempre più
difficile considerarlo come figlio nostro. Ci ritrovavamo a pensare al futuro
imminente, quando lui avrebbe preso il titolo della nostra famiglia con tutto
il patrimonio pur non essendo un Cavendish, ma bensì il figlio di una povera contadina.
Eppure rimandavamo di giorno in giorno qualsiasi decisione.
Poi una sera Alåen trovò un documento che io e Claudius
avevamo stupidamente lasciato in un cassetto. Attestava che Alåen era stato
preso dalla famiglia Evans come prezzo per il saldo del debito. Quando l'aveva
letto era andato su tutte le furie.
Ci ha urlato contro, blaterava di voler trovare la sua vera
famiglia. Era fuori di se.
Il mattino dopo è uscito di casa dicendo che avrebbe fatto
uno dei suoi soliti giri di ispezione nelle fabbriche, ma naturalmente né io né
mio marito credemmo alle sue parole. Così Claudius lo seguì e lo vide salire su
un treno diretto alle campagne.
Sul documento che Alåen aveva trovato era scritto anche
l'indirizzo della casa dei suoi genitori, così per lui non fu difficile
trovarla. Incontrò i signori Evans e stette là con loro tutto il giorno, ma al
suo ritorno a Londra tuo padre era in
stazione ad aspettarlo.
Oh, Alåen si era messo strane idee in testa, aveva iniziato
a dire che avrebbe aiutato economicamente la sua vera famiglia perché viveva
nella miseria, e aveva minacciato Claudius di raccontare la verità in giro.»
In quel momento il padre di Jessamine, sentendosi preso in
causa, decise di proseguire lui il racconto: «Abbiamo avuto un litigio alla
stazione. All'inizio credevo volesse prendermi a botte, tanta era la rabbia
negli occhi e nella voce di quel ragazzo. Gli proposi più volte di ragionare e
di tornare a casa, ma lui non ne voleva sapere. Era diventato un pericolo per
il titolo della nostra famiglia, capite?
Così mentre se stava per andare infuriato, gli ho tirato una
botta in testa con il mio bastone da passeggio. É caduto a terra inerme. Tutta
la gente alla stazione aveva iniziato ad osservarci ma io spigai che era tutto
a posto e distolsi in fretta l'attenzione da noi due. Oh, Alåen non era morto,
naturalmente. Ma non poteva restare vivo, con ciò che sapeva.
Così l'ho portato in una delle nostre fabbriche, quella di
Aldgate, e mentre tutti gli operai all'interno stavano lavorando vi ho
depositato il suo corpo ancora svenuto e ho appiccato un incendio. Nessuno è
rimasto vivo. Dopo, quando la gente venne a sapere dell'accaduto, pensò che
nostro figlio fosse disgraziatamente morto durante il suo lavoro di controllo,
per colpa dell'incendio.
Nei giorni seguenti siamo andati io e mia moglie di persona
a casa dei signori Evans per informarli di ciò che era successo, minacciandoli
di non raccontare a nessuno di questa storia, altrimenti avrebbero fatto la
stessa fine sia loro che il loro altro figlio, che fino ad oggi non avevamo mai
incontrato. Ma ora eccoti qui.» concluse rivolto a James. Il ragazzo sconvolto
stava per parlare, ma venne interrotto da un urlo agghiacciante di fianco a
lui. Jessamine si era alzata in piedi con gambe tremanti e ora si teneva le
mani sulla bocca. Aveva le guance rigate della lacrime e stava continuando a
piangere. La madre sospirando si alzò in piedi e allungò una mano verso la
spalla della figlia, ma la ragazza gridando nuovamente si scostò in modo
fulmineo, come se la donna fosse un essere velenoso.
«Stammi lontano.» ringhiò Jessamine mentre continuava a
piangere.
«Bambina mia, non capisci...» disse la signora Cornelia
avvicinandosi nuovamente.
«Stammi lontano!» urlò lei. «Come avete potuto fare questo?
Siete dei mostri, degli assassini!»
Il signor Cavendish alzandosi anche lui in piedi disse:
«Jessamine, noi volevamo bene ad Alåen, ma non era tuo fratello. Era solo il
figlio di una contadina. É stato un grosso errore il nostro, di farti credere
che fosse il tuo vero fratello.»
«Ma lui era mio fratello!» sbottò la ragazza. «Molto di più
di quanto io adesso non vi consideri i miei genitori. Siete patetici. E tutte
le persone che quel giorno erano a lavorare in fabbrica, che fine hanno fatto?»
«Tel ho detto, sono morte. Ma non vederla in modo più brutto
di quanto non sia in realtà. Erano solamente schiavi e poveri di poca
importanza.» rispose Claudius.
«Non ci posso credere. Voi avete ucciso degli innocenti. Tu,
sei un assassino!» urlò Jessamine per poi riprendere a piangere.
James intanto aveva il volto che da stupito pian piano si
stava trasformando in una maschera di rabbia e vedere la ragazza accanto a lui
piangere distrutta fu la goccia che fece traboccare il vaso: «Signor Cavendish,
io non le permetto di insultare mia madre e la mia famiglia in questo modo.»
aveva le mani strette a pugno lungo i fianchi.
«Io non ho insultato tua madre e nemmeno la tua famiglia. Ho
detto soltanto cosa siete: dei poveri contadini.»
«Siamo comunque persone migliori di lei e sua moglie! Ha ragione
Jessamine, siete dei mostri e pure patetici. Avete ucciso mio fratello che
nemmeno sapevo di avere, e ora non avrò mai l'occasione di conoscerlo, e per
cosa? Per il vostro stupido titolo famigliare.»
«Sono cose che non puoi capire.» si intromise la signore
Cornelia.
«Saranno anche cose che non posso capire, ma resta il fatto
che sono state sacrificate delle vite umane. E poi, ci sono cose che non si
dimenticano. Perché vedere la propria madre che piange dato che deve mandare il
proprio figlio di dieci anni a lavorare da solo in miniera facendo turni per
due, quando invece avrebbe avuto un altro figlio per aiutare, no, questo non si
dimentica.
Ora capisco perché piangeva sempre pensando ad un altro
figlio: perché lei l'aveva, ma le era stato portato via come un cane!» urlò
James avvicinandosi pericolosamente ai genitori di Jessamine, che
indietreggiarono spaventati.
Il ragazzo puntando un dito contro di loro sputò: «Con i
vostri sporchi soldi vi siete comprati tutto, ma quando andrete all'inferno, là
quelli non potranno salvarvi.»
E dopo quella frase calò un profondo silenzio nella stanza,
interrotto solamente dal singhiozzare di Jessamine, che ora si era seduta sulla
sedia e si teneva il volto tra le mani.
Solo dopo diversi minuti la madre della ragazza si azzardò a
parlare: «Figlia, sappiamo che ora sei sconvolta, eppure sei stata tu ad aver
voluto sapere la verità. Prima o poi ti passerà e comprenderai ciò che abbiamo
fatto. Sappi solo che quando Alåen era in vita l'abbiamo sempre trattato come
un figlio.»
«Sono tutte menzogne.» rispose Jessamine con voce roca. «Un
figlio non si uccide. E non sperate davvero che un giorno io possa perdonarvi
per ciò che avete fatto perché non voglio vedervi mai più.»
E detto questo la ragazza si alzò in piedi e voltando le
spalle ai due signori si diresse a passo infermo ma deciso verso l'uscita della
casa. James la seguì ed entrambi uscirono dalla villa, sbattendosi la porta
alle spalle.
Dopodiché attraversarono il lungo giardino in silenzio, uno
accanto all'altra con lo sguardo fisso a terra, e solo quando furono fuori dal
cancello si guardarono negli occhi.
Eppure, non c'era niente da dire.
Oggi entrambi avevano scoperto una crudele verità sulla loro
vita.
Jessamine di avere genitori meschini, e di aver perso un
fratello per mano loro; James di averlo trovato, ma troppo tardi per poterlo
conoscere.
Il dolore traspariva dai loro occhi mentre si fissavano
immobili e in silenzio ed era troppo per essere sopportato insieme.
Così, come leggendosi nel pensiero, si mossero insieme e
cominciando a camminare nelle due direzioni opposte si diedero le spalle e si
divisero.
Non ci furono più parole, e poi la pioggia cominciò a
scendere.
CAPITOLO 10
Si conobbero. Lui
conobbe lei e se stesso,
perché in verità
non s'era mai saputo. E lei
conobbe lui e se
stessa, perché pur essendosi
saputa sempre, mai
s'era potuta riconoscere così.
-Italo Calvino, Il
barone rampante-
James camminava lentamente strisciando i piedi sulla strada
bagnata, con la pioggia che gli inzuppava tutti i vestiti. Eppure non se ne
curava, e nemmeno sembrava notare il vento che soffiava forte e i fulmini che
illuminavano il cielo.
Gelide gocce di pioggia gli scendevano dai capelli fradici
sgocciolandogli sul naso e negli occhi, ma lui continuava a camminare.
Non si era mai sentito più solo di così.
Insomma, solitamente lui amava la solitudine, suonare il
violino per isolarsi dal mondo o ritirarsi in campagna per stare in mezzo al
nulla. Quel pomeriggio però la solitudine gli pesava sul petto come un mattone,
rendendogli il respiro pesante. La verità era che riusciva a pensare solamente
ad una cosa: aveva un gemello. O meglio, l'aveva avuto. Alåen. Forse la sua
vita sarebbe stata differente insieme a lui. Avrebbero lavorato insieme, o
magari suonato insieme, o forse insieme e basta.
Non aveva mai desiderato qualcuno con cui condividere se
stesso. Hai più cose da possedere se non hai nessuno con cui dividerle; i
pensieri restano tali se non hai nessuno ad ascoltarli.
E ora invece si ritrovava ad immaginare come sarebbe stata
la sua esistenza con un fratello accanto.
Togliendosi con una mano i capelli dal viso si disse che era
inutile pensarci, poiché ormai non ce ne sarebbe stato motivo. Per lo meno suo
fratello aveva avuto una vita migliore della sua, prima di morire. Oh, e che
brutta fine aveva fatto, bruciato nelle fiamme come un'anima dell'inferno.
Rabbrividendo a quel pensiero aumentò il passo per
raggiungere in fretta la sua destinazione.
Un viso gli balenò in mente: Jessamine.
Doveva essere distrutta in quel momento. Tutto ciò che aveva
creduto fino ad ora, tutta la sua vita fino a quel giorno si era mostrata
falsa.
James non riusciva a liberare il suo pensiero da una brutta
immagine che il suo subconscio aveva creato e che gli opprimeva il cuore: la
ragazza, sola, a piangere sopra al suo letto.
Ricordò a se stesso che probabilmente stava succedendo
davvero così. Ma lei sarebbe andata avanti.
Si sarebbe creata una nuova vita, sposando un uomo che le
avrebbe donato la vita dei suoi sogni e facendo dei bambini ai quali spiegare
che avrebbero avuto uno zio fantastico, che però non avrebbero mai conosciuto.
Ma nonostante ciò sarebbe andata avanti, ed era questo
l'importante.
Eppure, pensare quelle cose provocava in James un forte
senso di fastidio e infelicità. Sentiva il bisogno di fermarsi e tornare dalla
ragazza, oppure desiderava che lei fosse in mezzo alla strada dietro di lui e
lo stava per raggiungere.
Dopotutto si erano trovati bene insieme in quei giorni,
c'era intesa tra loro.
Scacciando quei pensieri si chiese se stesse diventando
pazzo. Lei era una donna appartenente alla borghesia e lui un semplice
musicista di strada, e così sarebbe rimasto.
Era meglio se lui la dimenticasse e non si fossero visti mai
più.
E poi perché lei avrebbe dovuto volerlo vicino, quando lui
essendo uguale al fratello, glielo avrebbe ricordato ogni giorno?
Finalmente stava arrivando a destinazione: la stazione dei
treni era poco avanti a lui, con il solito trambusto di persone che si
muovevano all'entrata nonostante la pioggia.
Sarebbe partito, era la decisione giusta. Magari poteva
tornare in Francia, a suonare sulle coste della Provenza o vicino alla Tour
Eiffel di Parigi, e piano piano avrebbe dimenticato tutto, anche Jessamine. Ma
in quel momento sentì dietro di lui un forte rumore di passi che si
avvicinavano correndo.
«James! Non partire!» urlò quella voce che si era immaginato
parecchio di sentire poco prima.
Voltandosi incerto vide Jessamine che correva verso di lui
tutta fradicia tenendo sollevata la gonna con le mani. Quando lo raggiunse
aveva il fiatone e i capelli appiccicati al viso dall'acqua: «Per fortuna ti ho
trovato. Sapevo che stavi andando in stazione.» disse lei affannata.
James notò che i suoi occhi erano arrossati, segno che aveva
affrontato un grosso pianto.
«Devo partire. Non ha più senso che io resti qui.» disse lui
abbandonando lo sguardo a terra.
La ragazza annuì: «Lo so, non ti sto chiedendo di restare.
Volevo solo ringraziarti e darti i soldi che ti devo. Senza il tuo aiuto non
avrei mai scoperto...tutto questo insomma.»
E poi gli porse una busta contenente delle banconote.
«Jessamine, non dovevi.» replicò James indicando la busta
dopo averla presa in mano. «Sai che sono contento di averti aiutato.»
Ci furono alcuni attimi di silenzio e poi la ragazza disse
semplicemente: «Ti accompagno in stazione.» e i due ragazzi entrarono
nell'edificio di fronte a loro, dove finalmente poterono ripararsi dalla
pioggia.
I binari erano tutti vuoti e per il momento non c'erano
treni in partenza, così poterono sedersi in una panchina per parlare ancora.
«Dove hai intenzione di andare adesso?» gli chiese Jessamine
guardandolo intensamente negli occhi.
«Penso che andrò in Francia. É un bel paese e sicuramente il
clima è migliore di quello londinese.» rispose James per fare del sarcasmo e
sciogliere un poco la tensione che si era creata.
«Non sono mai stata in Francia, deve essere magnifica.»
sussurrò lei, ma prima che potesse aggiungere altro James le aveva preso le
mani nelle sue e con voce tremante disse: «Odio gli addii Jessamine. Per questo
non ero venuto a salutarti prima di recarmi qui. Ma poi tu mi hai rincorso,
perché l'hai fatto?»
«Perché non ce la facevo a lasciarti andare senza almeno
averti visto un'ultima volta.» ammise la ragazza.
James sospirò: «Io credevo...insomma tu hai la tua vita. Io
sono stato una piccola pedina presente in pochi giorni della tua intera
esistenza. Dopo questo giorno tu andrai avanti e lo farò anche io.»
«Io non ho più la mia vita, James. I diciannove anni che ho
vissuto si sono basati su una menzogna. Tutto in questa città mi ricorda che la
mia vita era falsa.»
«E allora vieni con me. Partiamo insieme.» le disse il
ragazzo stringendole le mani, che erano ancora nelle sue. «Viaggeremo, vedremo
posti nuovi e ci creeremo una nuova vita dimenticando tutto quello che è
successo.»
Lei guardandolo intensamente negli occhi ci mise molto prima
di rispondere. Ciò che le era stato proposto era semplice: ricominciare. Si
immaginò lei stessa mentre prendeva innumerevoli treni cambiando sempre
destinazione, senza una casa o uno scopo preciso. Furono quelle immagini che le
diedero la forza di parlare: «Io...non credo sia possibile. Siamo due persone
molto diverse io e te, ognuno di noi ha le sue esigenze...»
James distolse lo sguardo: «Certo, è così. Non so proprio
perché ti ho fatto una proposta simile.»
In quel momento si udì il suono forte di una campana e poi
una voce annunciare: «É in arrivo il treno per Parigi al binario due!
Affrettatevi, passeggeri! Seconda classe in coda!»
«É il mio treno.» disse James alzandosi in piedi. Jessamine
fece lo stesso senza dire una parola e insieme si incamminarono verso il
binario.
Poco dopo arrivò il treno che fermandosi liberò una grande
quantità di vapore che avvolse i due ragazzi fermi sul marciapiede, mentre la
voce di prima annunciava nuovamente l'arrivo del treno.
Dopo che si furono aperte le porte James sorrise appena alla
ragazza e le disse: «Ora dovrei andare.»
«Certo.» annuì lei, ma poi lo prese e alzandosi in punta di
piedi lo strinse in un abbraccio colmo di emozione. James all'inizio rimase
stupito di quel gesto improvviso ma poi, chiudendo istintivamente gli occhi,
strinse anch'egli a se il corpo della ragazza.
«Grazie di tutto.» gli sussurrò lei prima di liberarlo.
Lui le sorrise un ultima volta e poi, senza più voltarsi
salì sul treno.
Era andato.
Jessamine era sola ora. Il treno era ancora fermo sui
binari, ma sicuramente di lì a poco sarebbe partito.
Osservandosi la punta delle scarpe si rese conto di quanto
anche lei odiasse gli addii. Prima di quel giorno infatti, non aveva mai dovuto
dire addio a nessuno. Principalmente perché le poche persone a cui era
affezionata non se ne erano mai andate, e l'unica a cui avrebbe voluto dare un
addio, Alåen, era morto senza di lei. Di
una cosa però era certa: non avrebbe mai dimenticato James.
E non solo perché le ricordava costantemente il fratello, ma
perché l'aveva fatta sentire bene. Le aveva insegnato che per vivere felici
bastavano poche azioni: coltivare le proprie passioni, divertirsi e soprattutto
amare le persone che si hanno accanto. Le altre cose, i soldi, il potere, una
buona casa, erano superflue.
Eppure, si disse, lei non sarebbe mai riuscita a vivere
senza di esse. Avevano da sempre fatto parte della sua vita, l'avevano
dominata, rendendola ciò che era ora.
Ma non erano forse le stesse cose che l'avevano portata alla
rovina?
«Treno in partenza!» urlò la voce. «Allontanarsi dai
binari!»
Da quel giorno, che lei lo volesse o no, avrebbe iniziato
una nuova vita. Quella precedente si era rivelata un grosso errore.
Ognuno ha la possibilità di scegliere ciò che vuole
diventare e anche lei sapeva in quel momento di avere quella chance.
Se fosse rimasta a Londra non avrebbe mai dimenticato.
Certo, qui aveva i suoi soldi, il suo potere e la sua bella casa, ma erano
davvero quelle le cose che contavano?
No.
Le porte del treno erano ancora aperte.
«James.» sussurrò tra se, e in quel momento capì cosa
avrebbe dovuto fare.
Facendo un balzo salì sul treno, appena in tempo prima che
le porte venissero chiuse e il mezzo partisse sferragliando.
«James!» urlò inoltrandosi nel corridoio tra le persone
sedute e poi lo vide, lì in piedi come un miraggio.
«Jessamine cosa ci fai qui? Il treno è partito!» le chiese
lui trovandosela davanti e non credendo ai propri occhi.
«Lo so e ho fatto la mia scelta. Vengo con te.»
Dopodiché lui la abbracciò e quasi la sollevò in aria per la
felicità, attirando l'attenzione degli altri passeggeri che osservavano la
scena divertiti.
E Jessamine, che aveva lo sguardo rivolto fuori dal
finestrino tornò incredibilmente con la mente a diverse notti prima, quando
facendo un incubo aveva sognato un gatto che si specchiava in un fiume. Quel
giorno non aveva compreso cosa significasse ma solo ora mentre James, commosso,
le rideva nell'orecchio, capì che il gatto in realtà era lei e si rese conto
che era solamente un allegoria della sua vita, la quale solo ora stava
iniziando per davvero.
E se prima era nera la luce, ora il cielo è limpido.