IL VOGUE
( come scappare da se stessi)
DI
Miriana Mastrangelo
“Diverse volte al
giorno guardo fuori dalla finestra la luce dorata del tiglio, come un gatto
lecca il suo latte a piccoli sorsi rapidi e avidi.”
(Christian Bobin)
1.
Giulia era seduta sulla fredda panchina che fungeva da
fermata dell'autobus, pensando al testo della canzone che stava ascoltando
proprio in quel momento. “I
know we can't work it out, you're always pulling me down. You never knew but no
one liked you anyway. But I'm better, better, better, better. I'm better off my
own. 'Cause I'm better, better, better, better. I'm better off alone.”
Rimaneva sempre colpita da queste poche parole che in qualche modo le
appartenevano, come se le avesse sempre sapute. Guardò l'orologio spazientita e
si alzò. L'autobus si stava avvicinando lentamente come se avesse paura di non
fermarsi in tempo. La ragazza si avvicinò ad esso e salì, ignara del fatto che
quel viaggio le avrebbe cambiato la vita.
Guardava il lento scorrere del traffico pensando al
colloquio che avrebbe avuto di lì a poco per entrare nel prestigioso
conservatorio di musica. Si sentiva nervosa ed era sollevata dal fatto che
l'autobus la proteggesse dal freddo pungente di novembre. Osservò i passeggeri,
era una cosa che faceva spesso:guardare la gente come se potesse capire a cosa
stavano pensando, se fossero felici, se il lavoro stesse andando bene. Il mezzo
di trasporto non era molto affollato. Vicino agli obliteratori, in piedi, si
trovavano due uomini di mezza età che discutevano come vecchi amici. Notò che
uno di loro portava la fede al dito medio. Nei sedili davanti a lei c'erano due
signore con le facce stanche provate dal lavoro. Negli ultimi posti in fondo
due fidanzatini si guardavano in modo adorante. 'Si lasceranno presto', si
sorprese a pensare. Poi vide una persona che non aveva notato prima. Era un
uomo sulla trentina vestito accuratamente con tanto di sciarpa e cappotto, e un
cappello leggermente sgualcito. Il tutto rigorosamente nero, il che gli
conferiva un'aria parecchio misteriosa. Ma la cosa che più la colpiva era il fatto che l'uomo la stesse guardando.
Distolse subito lo sguardo, interrompendo il contatto visivo. Si sentiva a
disagio. Non le era mai capitato di essere guardata così. Era intimorita ma non
spaventata, non ancora. Sentì una mano posarsi sulla sua spalla. Un brivido le
percorse il corpo e si girò di scatto anche se sapeva benissimo a chi quella
mano appartenesse. <<Seguimi>>. La voce dell'uomo era bassa, calda
e rassicurante. Giulia si sentì in qualche modo confortata da essa ma si
riscosse subito, non doveva farsi incantare. L'uomo ritirò la mano e uscì
dall'autobus che in quel momento si era fermato. Non guardò se la ragazza
l'avesse seguito, era sicuro che l'avrebbe fatto. Ma Giulia restò ferma. Si
sentiva turbata, spaventata, terrorizzata da ciò che era appena successo.
Nessuno sull'autobus sembrava essersi accorto di nulla. Non era riuscita a
vedere in che direzione fosse andato l'uomo, sembrava essersi smaterializzato
appena sceso dal veicolo. Stava tremando. Cercò di calmarsi, dopo tutto non era
successo niente per cui valesse la pena preoccuparsi tanto. Si costrinse a
pensare al posto al conservatorio che forse avrebbe ottenuto, al gatto che
aveva visto nel parco a fianco a casa sua, al libro che stava leggendo. Cercò
di pensare a tutto meno che all'incontro avvenuto poco prima. Tanto che,
arrivata a destinazione, si era convinta che fosse stato solo frutto della
propria immaginazione. C'erano circa venti minuti a piedi dalla fermata
dell'autobus al conservatorio. Pensò con nostalgia all'estate, alle giornate
lunghe, alle feste in spiaggia e ai numerosi cocktail bevuti con le amiche su
una monotona spiaggia grigia e schiamazzante facendo finta di essere in una
delle più belle isole dei Caraibi. L'autunno le metteva tristezza. Nonostante
fossero appena le sei del pomeriggio era già buio e la nebbia penetrava nelle
ossa facendo rabbrividire gli intrepidi passanti. Era quasi arrivata quando
imboccò una stretta stradina scarsamente illuminata dalla fioca luce
giallognola dei lampioni. Si trovava in una zona industriale e si sentivano
solo i rumori ovattati della strada da cui era venuta. Giulia non si sentiva
affatto tranquilla. Ripensò al conservatorio. Desiderava tantissimo entrarci.
Suonare l'arpa era sempre stata la sua passione. Le venne in mente l'immagine
di sua nonna che le insegnava. Si
rattristò a quel pensiero.
All'improvviso sentì dei passi dietro di lei. Erano veloci
ma tranquilli, come se chi stava camminando volesse raggiungere al più presto
il proprio obiettivo, eppure non avesse dubbi sulla riuscita di quell'impresa.
Si rese conto di essere lei l'obiettivo da raggiungere. Si fermò senza neanche
volerlo, era paralizzata dal terrore.
Inconsciamente pensò alle poche lezioni di autodifesa che aveva seguito
controvoglia e si pentì di non essersi impegnata di più. Cercò di scacciare le immagini dei
telegiornali che le si affollavano in testa. Dentro di lei idee diverse erano
in conflitto fra loro. Aveva un'immensa voglia di correre, eppure sapeva che
era sbagliato. Una delle poche cose che
aveva imparato era di correre solo se si era certi di essere più veloci
dell'aggressore e Giulia non era certo un asso nella corsa. Voleva voltarsi ma
non ne aveva il coraggio, anche perché, in cuor suo, sapeva già chi si trovava
dietro di lei. Ma la cosa che più la riempiva di paura era il fatto che i passi
si fossero fermati. Richiamando tutta la forza di volontà che possedeva decise
di continuare a camminare come se nulla fosse successo. Dietro di lei il rumore
dei passi ricominciò. Si costrinse a
pensare ad altro ma i suoi sensi erano all'erta, eppure riusciva solo a sentire
il martellante rumore del proprio cuore. Ad un certo punto avvertì l'impellente
bisogno di voltarsi. Fece un profondo respiro e si girò di scatto. Era anche
peggio di ciò che si era immaginata. Andò completamente in panico tanto che le
venne quasi da piangere. Non c'era nessuno. Si guardò attorno ma la strada era
completamente vuota. Decise di credere di essersi inventata tutto. Stava per
voltarsi e riprendere a camminare quando sentì una voce sussurrarle
all'orecchio.
<<Sapevo che mi avresti seguito>>.
La paura di prima non era niente in confronto a ciò che
stava provando in quel momento. Le sembrava quasi ridicolo essersi spaventata
per un rumore di passi. Ora sentiva tutto più chiaramente: il rumore del
traffico, le foglie che si muovevano sospinte da un leggero vento, un topo che
rovistava nella spazzatura. Sentì il freddo dell'autunno e il calore del
proprio corpo che in quel momento le sembrava così vivo. Sentì il fiato caldo
dell'uomo sul proprio collo e una lacrima farsi strada sulla guancia,
portandosi appresso una scia scura di trucco. Lui la prese per un braccio e la
girò. Non oppose resistenza, la sua
forza di volontà se ne era completamente andata. Non si sorprese di trovare davanti a sé colui
che la stava osservando sull'autobus. La guardò negli occhi e Giulia si sentì
rabbrividire per quello sguardo così intenso e invasivo. Finalmente lui sembrò
prendere una decisione. Distolse gli occhi e prese qualcosa da una tasca
interna del vecchio cappotto. Sembrava una moneta di ferro, spessa e di forma
esagonale. La diede alla ragazza che la
prese diffidente, dopo di che si voltò, fece alcuni passi e svanì. Giulia
osservò la moneta, sopra c'era inciso un gatto. La strinse nel palmo della mano
e cadde a terra svenuta.
Un'ombra sorrise nel buio.
Aveva svolto il proprio compito.
2.
Guido si stiracchiò assonnato, non ne poteva più di star
seduto. Uscì dall'ufficio preso dall'irrefrenabile voglia di camminare. L'aria
era umida e poco accogliente, satura dei gas nocivi che il genere umano
continuava a produrre. Si avviò per Via Manzoni finché non raggiunse i giardini
pubblici. Di tutta la città quello era
in assoluto il luogo che preferiva.
Sentiva di averci passato i momenti più importanti della propria vita:
la prima amicizia, la prima cotta, il primo bacio. Quel luogo era sia felicità che tristezza. Da
piccolo suo nonno lo portava lì tutti i sabato mattina. Anche ora, a trent'anni, quel giorno assumeva
un significato speciale.
Si sedette su quella che ormai considerava la “sua”
panchina. La vernice rossa si stava
lentamente staccando lasciando sempre più scoperto il freddo ferro. Guido preferiva stare solo: quando le persone
lo guardavano sentiva che la spessa corazza che aveva costruito negli anni si
sgretolava pian piano come la vernice della panchina. Aveva il terrore che qualcuno potesse intuire
i suoi pensieri e scoprire i suoi più intimi segreti.
<<Signore! Signore! Può passarci il pallone?>>
Ci mise un po' a capire che si stavano rivolgendo a
lui. Si guardò intorno finché non vide
un gruppetto di ragazzini che si sbracciavano irritati per la lentezza da lui
dimostrata. Consegnò il pallone mezzo sgonfio a quello che sembrava il capo del
gruppo e si diresse verso il confortante calore di un bar pulendosi sui
pantaloni le mani sporche di fango.
Quando spinse la pesante porta di vetro fu accolto
dall'allegro chiacchiericcio che persisteva nel locale e dal tipico odore di
croissant appena sfornati. Salutò con un
cenno il barista e si diresse nella sala fumatori, al solito tavolo dove
Geordie gli avrebbe portato il suo solito the verde.
Era seduto con le spalle alla finestra così che poteva
osservare tutta la sala. Il suo sguardo si posò su una ragazza di poco più
giovane di lui. Aveva un fisico da pallavolista, la pelle leggermente scura e i
capelli ricci raccolti sulla nuca.
Stava ridendo con un uomo di molto più vecchio di lei. Con capelli e barba scuri che facevano
risaltare gli occhi verdi. Lei era seduta sul bordo della sedia, leggermente
china sul tavolo con una sigaretta tenuta fra indice e medio in una posa
volutamente sbarazzina. Sentendo
l'insistenza del suo sguardo la ragazza si girò e i suoi occhi nocciola erano
pieni di curiosità e sicurezza quando incontrarono quelli di lui. Proprio in quel momento arrivò Geordie con
una tazza di the fumante in mano. Si sedette di fianco a Guido posando i gomiti
sul tavolo e sporgendo la testa in avanti in modo confidenziale.
<<Allora come va?>>
<<Bene>> rispose Guido in tono asettico.
<<Si chiama Hava>> disse il cameriere accennando
con la testa alla ragazza.
<<Viene spesso qui?>>
<<Che ti importa?>> rispose Geordie in tono
falsamente geloso.
Guido sapeva che non vedeva l'ora di raccontargli tutto ciò
che conosceva di lei.
<<E' arrivata la settimana scorsa>> disse
rispondendo alla domanda di prima.
<< Viene ogni pomeriggio, dalle tre alle cinque. Spesso in
compagnia di suo padre>>.
Come risposta alle preghiere di Guido il padre della ragazza
se ne andò e lui, facendosi coraggio, si diresse verso di lei. Si sentiva stranamente inquieto. 'E' solo una
donna', pensò, 'ne hai affrontate altre. Solo una donna'. Eppure sentiva qualcosa
di diverso e incredibilmente fatale in lei.
<<Posso?>> disse indicando la sedia.
<<Come scusi?>> replicò la ragazza socchiudendo
gli occhi e cercando di interpretare il confuso borbottio uscito dalla bocca di
colui che le stava di fronte. Non era una brutta bocca, si sorprese a
pensare. E neanche gli occhi azzurro
cenere o i capelli color semola, lunghi appena qualche centimetro, erano
male.
<<Posso sedermi?>> questa volta Guido scandì
meglio le parole e ricevette un cenno d'assenso.
<<Mi chiamo Guido>>
<<Io Hava, è albanese>>
Si strinsero la mano, quella di lei era decisa e ruvida in
alcuni punti come se fosse abituata ai lavori manuali.
<<Scusa ma non mi sembri albanese>> rispose Guido temendo di risultare
scortese. Ma Hava si mise a ridere.
<<Mio padre infatti è marocchino>>
Aveva un sorriso bellissimo che pareva perfetto, nonostante
presentasse un piccolo diastema.
<<Senti ora devo proprio andare>> riprese lei
<<Chiamami>>. E così dicendo gli lasciò il numero. Poi uscì,
voltandosi verso di lui prima di chiudere la porta.
3.
Sentì l'aria fredda pungerle il viso. Si lasciò alle spalle
il bar e si avviò verso i Navigli. Le persone per strada la osservavano
sfacciatamente incuriosite. Ormai ci era abituata e non le dispiaceva affatto.
Anzi, si vestiva appositamente in modo eccentrico e provocatorio ostentando una
sicurezza che non possedeva. Amava essere osservata dalla gente che si chiedeva
curiosa se lei fosse una persona importante. Un'attrice, forse, o una modella.
Quando arrivò si sentì confortata. Da
piccola, prima del trasferimento, sua madre la accompagnava sempre lì e le
raccontava bellissime storie.
La sua preferita era quella della ballerina che un giorno,
stanca dei soliti spettacoli a teatro, scappò e fu costretta a lavorare come
spazzacamino. Eppure non aveva abbandonato la sua passione. Ballava infatti sui
tetti delle lussuose case signorili sentendosi finalmente libera. Poi, un
giorno, mentre stava ballando cominciò a volare trasportata dal vento.
Hava si ricordava a malapena le altre storie eppure c'era un
momento particolare che non si sarebbe più scordata. Poco prima di tornare a
casa sua madre le prendeva le mani e la osservava dritta negli occhi. Poi le poneva una domanda, sempre la
stessa. <<Ti ricorderai di me
guardando questo fiume, vero? Me lo prometti?>>.
Allora non comprendeva quella frase, ma avrebbe capito
presto. Sua madre era morta di leucemia
quando lei aveva appena dieci anni. I
medici, scoperto il tumore, le avevano dato appena tre mesi di vita e invece
erano passati quattro anni fra chemio, trasfusioni e trapianti. Ma la fine era giunta anche per lei. Il destino può rallentare il proprio corso,
ma non può essere fermato.
Sentì qualcuno avvicinarsi correndo, ma non si voltò. Restò
invece con i gomiti appoggiati al parapetto di uno dei tanti ponti che
attraversavano i Navigli, guardando con gli occhi lucidi il sole, ormai basso
all'orizzonte, giocare con l'acqua. Si
voltò, con una lentezza esasperata si tolse i grossi occhiali da sole che
portava sempre indipendentemente dalla stagione. Vide davanti a sé l'uomo del bar che, col
respiro leggermente affannato, le porse la sua borsetta fucsia comprata al
mercato.
<<Sembra molto costosa, non dovresti lasciarla in
giro>> disse lui sorridendo.
In risposta lei fece un ghigno malizioso <<in questo
caso ti ringrazio per avermela riportata>>, poi guardò l'orologio, dal cinturino consumato, che portava al polso
e, mascherando lo stupore che in quel momento provava, disse: << ci hai
messo poco. Seguimi.>>
Poi si incamminò verso la casa di Alda Merini.
4.
Guido era chiaramente stupito e anche un po' spaventato. E'
solo una donna, pensò, e, scuotendo la testa, la seguì. Durante il tragitto le
pose più volte le stesse domande. Chi sei? Dove mi stai portando? Perchè volevi
che ti seguissi? Ma lei non rispose a nessuna di esse continuando a guardarlo
con fare altezzoso. Dovettero arrivare davanti ad un insignificante edificio
grigio prima che lei proferisse parola. Lo portò davanti ad una porticina di
legno che sembrava si potesse sbriciolare solamente toccandola. Hava tirò fuori
una bandana bianca.
<<Chiudi gli occhi>>
<<Perchè?>> sbottò Guido irritato dal
comportamento di quella ragazza che lo aveva tanto attratto. Per tutta risposta
lei gli conficcò le lunghe unghie finte nel braccio, si mise in punta di piedi
e gli sussurrò all'orecchio con fare minaccioso: <<chiudi gli occhi. O
dovrò farlo io>>
Lui ebbe un fremito. Pensò di ribellarsi, pensò di scappare.
Sarebbe stato facile. Solamente uno spintone e sarebbe stato libero. Poteva
farlo, era molto più forte di lei. Pensò di costringerla a rivelargli tutto.
Sembrava possedere una corazza impenetrabile, eppure era sicuro che, con una
lieve pressione, sarebbe crollata. Avrebbe facilmente potuto liberarsi dal
giogo che lei gli aveva assegnato. Invece, molto lentamente, con un sospirò,
chiuse gli occhi. Hava sorrise soddisfatta. Aprì la porta e lo spinse dentro.
Lo condusse per un lungo corridoio scarsamente illuminato da fredde luci
industriali. Camminarono a lungo. Prima scesero, poi risalirono e poi scesero di
nuovo. Voltarono prima a destra, poi a sinistra e poi nuovamente a destra. E
continuarono a voltare ancora e ancora e ancora una volta finché Guido non
perse completamente il senso dell'orientamento.
Avanzava a fatica, aveva paura di cadere o di sbattere
contro qualcosa. Aveva paura di ciò che lo aspettava. L'unica cosa che lo
teneva attaccato alla realtà era la mano della ragazza che premeva sulla sua
schiena. Si rese conto che non lo aveva bendato, sicura che lui non avrebbe
osato aprire gli occhi e aveva ragione.
5.
Finalmente lei si fermò. <<Puoi aprirli,
adesso>>
Ancora prima di vederlo, aveva percepito di essere uscito
dal tunnel. Si trovava in quella che aveva tutto l'aspetto di essere una
caverna, una caverna di dimensioni gigantesche. In quel momento erano sopra ad
una specie di soppalco. Sotto di loro, centinaia di persone lavoravano: alcune
erano riunite attorno ad una scrivania, altre ad osservare al microscopio.
C'era poi chi progettava, chi costruiva ingranaggi, chi faceva calcoli al computer.
Tutto il lavoro, però, era in funzione di qualcosa o qualcuno che si trovava al
centro della grotta. Esso era però protetto da una potente impalcatura in
metallo, restando così nascosto alla vista di Guido.
<<Vieni>> disse Hava ora in modo più gentile.
Scesero delle strette scale tremolanti che li condussero fino a terra. Guido
alzò lo sguardo e si rese veramente conto delle immense dimensioni di quel
luogo, illuminato a giorno da potenti neon. Le alte pareti in pietra chiara
erano lucide in più punti a causa dei rivoli d'acqua che sgorgavano da esse.
L'acustica di quel luogo avrebbe permesso di sentire perfettamente una persona
sussurrare, anche se essa si fosse trovata dalla parte opposta della caverna.
Eppure nessuno parlava, instancabilmente concentrato sul proprio lavoro.
<<Guido, attento!>>
Era andato a sbattere contro ad una scrivania spargendo
documenti e scartoffie sul pavimento tutt'attorno. La massiccia donna che stava
lavorando a quel tavolo cominciò a raccogliere i fogli che erano caduti, ignorando
deliberatamente le scuse che Guido le stava porgendo. Ogni movimento della
donna racchiudeva in sé qualcosa di terribilmente sbagliato. Era ripetitivo e
non naturale come se andasse contro alla sua stessa forza di volontà.
<<E' inutile che continui a scusarti, Guido, non ti
può sentire. Guarda tu stesso>>.
La voce non era quella di Hava ma apparteneva ad un uomo, lo
stesso che aveva visto poco prima al bar in compagnia della ragazza. Suo padre.
Guido guardò meglio la donna. Sulle mani era presente una specie di corazza
color bronzo che riproduceva l'ossatura di esse e che in più punti si infilava
sotto la pelle. Essa continuava poi dalla parte del braccio sparendo sotto i
vestiti e ritornando visibile sul collo. Quando alzò la testa, Guido le guardò
gli occhi e un brivido gli fece immediatamente rizzare tutti i peli del corpo.
Erano vuoti, completamente bianchi.
<<E' in tranche?>>
<<No>> rispose l'uomo sorridendo <<è
morta>>.
Guido rimase per un attimo paralizzato cercando di
assimilare la notizia. Poi cominciò a guardarsi intorno freneticamente, ma
ovunque volgesse lo sguardo vedeva solamente armature bronzo e occhi bianchi.
<<Sono tutti morti>> sussurrò. La vista cominciò a diventare
confusa. Si accorse di riuscire a respirare a malapena. Cercò di calmarsi ma
provava un dolore lancinante alla testa.
Sentiva le ginocchia cedere, cercò di aggrapparsi a qualcosa
ma le mani avevano perso sensibilità.
Il mondo smise di girare quando Hava gli posò una mano sopra
alla spalla.
<<Tranquillo>> riprese l'uomo <<non siamo
assassini. Costoro avevano donato il proprio corpo alla scienza>>.
<<E per cosa li utilizzate?>>
<<Vengono utilizzati per il nostro progetto
'Vogue248360'>> rispose il dottor Jadid giocherellando distrattamente col
coltello a serramanico che aveva tirato fuori dalla tasca interna del cappotto
<<sa, abbiamo notato che i morti tengono meglio i segreti. E ciò vale
anche per lei>>.
<<E' una minaccia?>>
<<Oserei piuttosto dire un avvertimento. Scappa e ti
uccideremo. Rivela anche solo ad una formica qualsiasi informazione riguardante
il nostro progetto e ti pentirai di averlo fatto>>.
<<E se non collaborassi?>> rispose Guido
mostrando più forza di quella che possedeva.
Jadid sorrise in modo canzonatorio. <<Seguimi>>.
Fu un attimo e Guido sentì la morsa fredda e metallica delle
manette sui suoi polsi <<così ora sono tuo prigioniero?>> sussurrò
in modo ironico e non poco seducente a colei che l'aveva ammanettato. Nel
voltarsi per parlarle i loro visi erano finiti vicini come non lo erano mai
stati. Osservò le miriadi di increspature che si intricavano sulle labbra piene
di Hava. Ma lei non rispose, non accennò nemmeno ad un sorriso. Teneva lo
sguardo fisso davanti a sé con aria assente e preoccupata. Si stavano dirigendo
verso ad una piccola apertura sulla parete. Avvicinandosi, però, si rese conto
che non era affatto piccola. Anzi, era una vera e propria porta che conduceva
ad una caverna grande quanto la precedente. Guardandosi intorno scoprì che
erano presenti un'altra decina di porte come quella che prima non aveva notato.
La caverna in cui era appena entrato era più buia della precedente, non riuscì
a vedere molto. L'unica cosa che intravide, prima di essere condotto da
un'altra parte, furono degli enormi contenitori pieni di liquido bluastro all'interno
dei quali galleggiava qualcosa. A Guido venne la pelle d'oca solo ad immaginare
di cosa si trattasse. La visione non durò molto poiché Hava lo spintonò
attraverso un buio cunicolo. Questa volta lo spazio era molto ristretto e Guido
dovette piegarsi per evitare di sbattere la testa. Terminato il claustrofobico passaggio si
accedeva ad una specie di sala d'attesa dove una donna sulla trentina inseriva
dati al computer. Doveva essere molto bella da viva, pensò amareggiato Guido
notando l'armatura di bronzo. Senza degnare di uno sguardo la donna, Jadid li
condusse alla stanza successiva. Essa però, non era affatto una stanza. C'era
un piccolo spiazzo che conduceva ad una lunga scalinata. Essa era così
imponente e sfarzosa che si sarebbe aspettato di veder passare Luigi XIV e così
scarsamente illuminata da fiaccole appese alle pareti e così ripida che non si
sarebbe sorpreso se li avesse condotti
fino al centro della terra. Invece arrivarono in una grande stanza freddamente
illuminata. Lì sembrava che ci abitassero due persone completamente diverse in
quanto era per metà stracolma di delicati apparecchi scientifici ammassati
l'uno sull'altro come cianfrusaglie vendute al mercato e per l'altra metà
completamente spoglia. Gli unici addobbi erano i pezzi di vernice scrostata
caduti sul pavimento e un grosso e polveroso paravento rosso con ricami
floreali che copriva gran parte di quella metà di stanza. Esso svolgeva il
compito di celare l'ingresso ad una stanzetta annessa. E fu proprio lì che
Guido venne condotto. Lo spazio che gli si apriva davanti era una sorta di
largo corridoio. Su entrambi i lati si susseguivano delle piccole celle. Dentro
ad esse, celati dalle robuste porte di acciaio balistico, i prigionieri si
lambiccavano seduti davanti ad una tremolante scrivania oppure si godevano un
breve riposo sulla branda mangiucchiata dai topi. Ma lo sguardo di Guido si era
fermato ben prima delle celle. Esse infatti non coprivano tutta la parete ma
lasciavano scoperta una striscia di muro nella quale erano incastonate
verticalmente una decina di spranghe di ferro. Al momento solo due di esse
erano utilizzate. Ad una era ammanettata una ragazza piuttosto alta con occhi
verdi e uno sguardo ribelle pieno di paura e decisione. La sua pelle
leggermente abbronzata sembrava cadaverica in confronto ai capelli corvini che
le incorniciavano il viso donandole un'aria innocente e spaurita. Guardava il
vuoto e i respiri erano lenti e profondi come se stesse meditando. Accanto a
lei un uomo sedeva stravaccato, con le spalle appoggiate alla parete e la testa
reclinata. Egli era un tipo del tutto particolare. Era basso e mingherlino e lo
sembrava ancora di più dopo che le privazioni della prigionia gli avevano di
molto fatto stringere la cinghia. Era un professore tedesco i cui studi sulla
gravitazione dei buchi neri erano molto apprezzati da scienziati di tutto il
mondo. Fin da piccolo si era dimostrato un genio, ma ora la sua genialità lo
aveva portato in questa situazione. Sul viso smagrito gli occhi nocciola,
nascosti dietro a spessi occhiali rotondi, sembravano enormi. Da giovane aveva
fatto innamorare non poche ragazze e ora pensava con malinconia ai suoi due
bellissimi figli che non vedeva da tantissimo tempo. Si chiedeva spesso se i
sussidi di mantenimento arrivassero ancora nonostante lui fosse prigioniero.
Quasi sperava di no. Si illudeva che in quel caso la sua ex moglie si sarebbe
preoccupata e avrebbe avviato una spedizione di ricerca. Ma sapeva bene che
erano solamente sogni ad occhi aperti. Più probabilmente avrebbe pensato che
lui avesse finito tutti i soldi in alcolici di ogni genere. Ancora una volta.
Quando Guido venne incatenato ad una delle spranghe egli gli
rivolse un caloroso, ma stanco, sorriso. La ragazza era invece impassibile.
Jadid gli si avvicinò fino a far sfiorare i loro nasi. Aveva
stampato sul viso un ghigno che non era solo malizioso, ma esprimeva cattiveria
nella sua forma più potente.
<<Questo, mio caro Guido è ciò che succede a chi si
rifiuta di collaborare. Resterai incatenato qui fin quando non avrai preso la
tua decisione. Dormici su stanotte e domani verrò a sentire la tua
risposta>>.
Dopo di che se ne andò seguito dalla figlia, lasciando Guido
spaventato e confuso. Né Giulia né il professore Richter sembravano
intenzionati a parlare. Forse sono troppo stanchi, pensò Guido.
6.
Sentiva già le braccia indolenzite ed era lì solo da qualche
ora. Rabbrividì al pensiero di quanto sarebbe dovuto rimanere in quella
posizione. Settimane, mesi, anni.
Doveva essere notte quando Hava gli si presentò davanti.
Aveva gli occhi rossi e gonfi e sembrava sconvolta. Liberò Guido, lo bendò e lo
condusse in una piccola stanza. Essa doveva appartenere a qualcuno di
importante o addirittura allo stesso professore Jadid. Era più bella e curata
rispetto agli ambienti che fino ad allora aveva visitato. Il pavimento era
coperto da una moquette rosso sangue e sulle pareti erano affissi quadri e
fotografie di bambini deformi, guerre e inquinamento. Su una scrivania in stile
barocco si trovava un grosso computer e moderno computer. Hava lo accese e lo
invitò a guardare. Si sedettero su due scomodi sgabelli di legno che stonavano
irreparabilmente col lusso della stanza. Sul computer apparvero immagini di
quella che sembrava un'enorme nave spaziale. Era una semisfera ricoperta da
lucenti lamine metalliche.
<<Stiamo lavorando a questo progetto da circa una
decina di anni>> disse Hava <<ora è pronta ma ci serve il tuo aiuto
per potenziarla>>.
Bene, pensò Guido, almeno ora so a cosa lavoravano tutti
quei morti.
<<Questa macchina è stata creata da mio padre>>
riprese Hava <<per sconfiggere ciò che vedi rappresentato nelle
fotografie appese nelle pareti. Il Vogue vuole perfezionare l'uomo. Eliminarne
le debolezze e ridurre i danni da lui causati>>. Parlava euforicamente e
con gli occhi lucidi per l'emozione. Credeva ciò che stava facendo.
<<Vogliamo far sì che l'uomo si auto-sostenga, che non
sfrutti più la terra come fosse di sua proprietà. Vogliamo ridurre le malattie
e dare ad ognuno pari opportunità. Grazie a potentissime radiazioni siamo
riusciti, dopo vari tentativi, a modificare il codice genetico senza danni
collaterali.>>
Guido rabbrividì. Dopo vari tentativi. Chissà quante
persone erano già morte.
Hava parve scoraggiarsi un poco sotto il duro sguardo di
lui. Guido la vide incerta, probabilmente scoraggiata dal suo mutismo. Sapeva
che cercava il suo appoggio, ma non era intenzionato a darglielo. Non che la
proposta non gli fosse parsa allettante ma, al contrario di Jadid, lui ne
prevedeva le conseguenze, anche quelle nocive. Certo, il progetto era molto
bello, ma non avevano tenuto conto della mentalità umana.
<<Dove li tenete quelli su cui avete sperimentato il
Vogue?>> Non disse persone, non era sicuro che lo fossero. Hava, con un cenno, lo invitò a seguirla e lo
condusse ad un grande laboratorio.
Dentro a teche di vetro grandi più o meno come una stanza,
compivano la loro esistenza vuoti involucri di esserei umani. Alcuni erano soli
dentro alla loro grande gabbia trasparente, altri in gruppo, o in coppia. Le
teche erano arredate in modo diverso l'una dall'altra: alcune riproducevano un
ambiente familiare altre luoghi pubblici come un bar od una palestra, nel
debole tentativo di creare uno spazio quotidiano. Eppure nessuno sembrava
contrariato per quella situazione. Anzi su ognuno campeggiava la stessa
espressione di felicità. Esattamente la stessa. Guido indietreggiò di qualche
passo quando se ne rese conto. Su ciascuno di quegli esseri era presente lo
stesso sorriso e la stessa espressione
vuota negli occhi. Inoltre, erano tutti terribilmente somiglianti ad Hava:
stessi lineamenti affilati ma armonici, stesso modo di muovere le mani e di
tenere la testa sempre leggermente reclinata indietro. Solo gli occhi erano
diversi. Non di un caldo nocciola ma di mille sfumature di blu. A tratti erano freddi come il ghiaccio o
accoglienti come l'oceano. Anche la pelle era notevolmente più chiara, più
occidentale che africana. Ma la cosa peggiore doveva ancora scoprirla. Fra
questi esperimenti erano presenti anche dei bambini: alcuni appena nati, altri
ancora in attesa di vedere la luce. Vide infatti alcune donne incinte, esse si
trovavano soprattutto nelle celle doppie dove erano costrette a convivere con
un uomo, ma non solo. Infatti anche nelle teche abitate da due uomini o due donne
erano presenti degli infanti. Ma la cosa che più lo riempì di orrore fu vedere
una donna completamente sola, che cullava un neonato. Hava si accorse di ciò
che Guido stava guardando.
<<Abbiamo fatto in modo di diminuire le differenze fra
i due sessi. Ora ognuno può fecondare e concepire liberamente, sia egli uomo o donna>>. Ma tutto ciò a Guido
importava relativamente, teneva lo sguardo fisso sulla donna che in qualche
modo era riuscita a far nascere un bambino da sola.
<<Autofecondazione>> spiegò la ragazza capendo
finalmente il suo desiderio.<<Per far sopravvivere la specie nel caso non
ci siano partenr disponibili>> .
Guido era terrorizzato, ma allo stesso tempo provava
compassione. Compassione per ciò che quella donna era diventata. Compassione
per ciò che sarebbe diventata la razza umana se lui non fosse riuscito a
fermare quell'assurdo progetto. Cercò un
contatto visivo con la donna, ma lei non dava segno di vederlo. Probabilmente i
vetri erano oscurati, o forse a quella razza super-umana non serviva la vista.
Finalmente Guido
parlò: <<Hava non capisci cosa avete creato? Tuo padre non vuole
perfezionare la razza umana, ma creare un esercito di droni dall'esistenza
perfetta. Tutto ciò è agghiacciante e rivoltante. Non capisco come tu faccia ad
approvare tutto questo>>.
Hava rimase per un attimo senza parole. Stava per ribattere
quando sentì un potente boato. Veniva da una piccola porticina azzurra,
sembrava innocente ma nascondeva terribili segreti. Guido corse subito in
quella direzione deciso a scoprire la provenienza di quel rumore. Ignorò le
grida di Hava che gli dicevano di fermarsi, che quel luogo era proibito anche
per lei. Appena ebbe spalancato la porticina azzurra si pentì di averlo fatto.
Anche qui erano presenti delle gabbie, ma se Guido aveva pensato che non
potesse esserci nulla di più agghiacciante degli inquilini della stanza
precedente, si dovette ricredere. In queste stanze si trovavano gli esperimenti
falliti. A Guido la deformità non aveva mai fatto paura, ma questa volta era
del tutto diverso. Vide tre gemelle omozigoti con le braccia che uscivano della
vuote cavità orbitali. Una grassa signora londinese era perfettamente tagliata
a metà,:la parte sinistra era pienamente funzionante, quella destra
semplicemente inesistente. Vide poi una bambina che a tratti veniva
scaraventata, da chissà qual forza misteriosa, da una parte all'altra della sua cella. Osservò le forme
più assurde di ogni genere di tic e di deformazione. Chi aveva otto facce e chi
non ne aveva nessuna. Uomini che sbattevano le mani in continuazione e non
riuscivano a fermarsi. Lunghi peli neri che coprivano completamente il viso
lasciando scoperto il resto del corpo. Un uomo stava mangiando col piede
destro, perché lì aveva la bocca.
Guido girò furioso
verso Hava.
<<Vedi cosa hai
fatto? Cos'ha provocato il tuo fantastico progetto? Tu e tuo padre siete dei
pazzi. Utilizzate i morti come operai, create una super razza in grado di fare
solo quello che voi volete e avete fatto soffrire centinaia di persone>>.
Ma ad Hava la sua
voce arrivava lontana. Stava osservando un bambino con un solo occhio che si
divertiva a creare ombre sul pavimento con le dita. Ad intervalli regolari però
singhiozzava e la sua pelle cambiava colore. Hava non era mai stata lì prima.
Aveva agli occhi lacrime di rabbia verso suo padre che le aveva tenuto nascosto
tutto e di tristezza per ciò che aveva appena scoperto. Sentì Guido correre via
e, sola, cominciò finalmente a piangere.
Guido non sapeva come avesse fatto a non perdersi. C'erano
un infinità di gallerie e di scorciatoie tutte uguali che persino il Minotauro
avrebbe avuto difficoltà ad orientarsi. Forse per la paura, forse per
l'adrenalina, imboccò la strada giusta al primo colpo. Quando arrivò alla
stanza col paravento, sia il dotto Richter
che Giulia erano profondamente addormentati. Ci mise un po' a svegliarli e
quando ci riuscì i loro sguardi esprimevano solamente fastidio e stanchezza. Ma
non si curò di questo, doveva agire in fretta.
<<Sapete a cosa serve il Vogue?>>
I due fecero cenno di assenso.
<<E sapete anche come distruggerlo?>>
Questa volta la risposta fu negativa.
Guido si vide costretto a pensare in fretta ad un piano
alternativo.
Tornò nella parte di stanza stracolma di ogni sorta di
apparecchio. Dopo qualche ricerca trovò ciò che cercava: un paio di pinzette ed
un filo metallico. Con quelli riuscì a liberare Giulia e il professore che,
ancora mezzi assonnati, lo guardavano sbalorditi.
<<Scapperemo da qui>> decise Guido <<E
chiederemo aiuto>>
7.
Il professor Jadid aveva capito che qualcosa stava andando
storto. L'allarme lo aveva bruscamente strappato dai sogni, indicandogli che
qualcuno aveva fatto irruzione nella stanza a cui aveva proibito l'accesso a
tutti. Entrandoci non si stupì di trovarci Hava, sapeva che prima o poi
l'avrebbe scoperta. Le poggiò una mano sulla spalla, ma lei si scansò
bruscamente. Con il viso pieno di lacrime
lei gli urlò contro qualcosa. Jadid non cercò di fermarla quando corse
via. Uscì invece tranquillamente dalla stanza che testimoniava i suoi
insuccessi per andare a contemplare, come
faceva spesso, gli esperimenti andati a buon fine. I ognuno di essi
cercava le sembianze di sua moglie, che tanto faticosamente aveva cercato di
produrre. La pelle, i movimenti, il fisico. Era tutto perfetto tranne
l'espressione degli occhi. Non era autentica. Non aveva quella luce che tanto
aveva amato. Prese il cellulare dalla tasca e si collegò alle telecamere di
sicurezza. Vide Guido, il professore e
Giulia cercare frettolosamente una via di fuga. Vide sua figlia
discutere con loro e poi correre nella direzione opposta. Non si illuse che
Hava avesse tentato di fermarli, sapeva che era terribilmente attratta da quel
ragazzo che lui aveva voluto coinvolgere. Sapeva cosa sua figlia stesse
cercando, ma non le impedì in alcun modo di prenderlo. Il congegno ideato per
distruggere il Vogue ,infatti, non funzionava. Non aveva alcuna utilità se non
quella di rassicurare la figlia. Prima di iniziare il progetto le aveva
promesso che se qualcosa fosse andato storto avrebbe distrutto la sua preziosa
invenzione. Si alzò lentamente e si diresse verso il Vogue. Non correva alcun
pericolo, ma non voleva lasciar fuggire coloro che fino a poco prima erano suoi
prigionieri.
8.
Grazie alle indicazioni lasciate da Hava trovarono
facilmente la via d'uscita. Avevano concordato con lei di trovarsi in Piazza
del Duomo. A Guido non sembrava una buona idea, non voleva allarmare la folla
che perennemente si trovava là. Forse, però, era proprio questo che Hava
voleva: denunciare suo padre davanti a tutti. Potrebbe essere una trappola,
sussurrò una voce nella sua testa. Era un ipotesi del tutto plausibile eppure
Guido, ancora una volta, decise di fidarsi di lei.
Richter e Giulia si erano recati verso la stazione di
polizia, mentre lui si stava dirigendo nel luogo dell'appuntamento. Le gambe
gli duolevano per aver camminato tanto.
9.
Il Vogue era dietro di lui. La sua avanzata era uno stridio
di ingranaggi che collaboravano fra loro per dar vita alla più pericolosa
invenzione di tutti i tempi, ed era solo colpa sua. Stava correndo per le
strade di Milano per evitare di essere uccisa. Il panico non era ancora
dilagato per la città perché aveva
percorso solo strade isolate ma, si rese conto con orrore, che si stava
dirigendo verso piazza del Duomo. Doveva assolutamente trovare Guido. Aveva con
sé lo strumento per distruggere quella maledettissima macchina ma non sapeva
come utilizzarlo. Aveva l'infondata speranza che lui sapesse come adoperarlo.
Si voltò indietro e ancora una volta si stupì che un oggetto, all'apparenza
così enorme, potesse percorrere le strette vie di Milano, infilandosi fra alti
palazzi polverosi e coperti di murales. Nella sua corsa distruttrice, il Vogue,
sdradicava tutto ciò che gli impediva il cammino. E più avanzava più diventava
forte. Non poteva credere che suo padre avesse scatenato contro di loro una
macchina tanto malvagia e pericolosa.
Improvvisamente si trovò in piazza. Migliaia di persone
riunite in un unico luogo. Migliaia di persone destinate ad un unico destino.
Tutto ciò era accaduto perché si era fatta incantare. Prima dalle idee di suo
pare e poi da quell'uomo che era entrato nella sua vita solo il giorno prima.
Lo cercò fra la folla. Era seduto, non molto distante da lei, sulla statua del
leone che si trovava quasi al centro della piazza. Si dice che, prima di
morire, si rivivano i momenti più importanti
della propria vita, ma Hava vide solo il sorriso spontaneo e sincero che
Guido le aveva rivolto poco prima che il Vogue segnasse la loro fine.
EPILOGO
Giulia non si trovava in piazza quando accadde “la
sfortunata fuga di gas che aveva ucciso centinaia di persone”. Così l'avevano
descritta i giornali. Una fuga di gas. La piazza era distrutta. Buona parte
degli edifici era crollata. Solo il Duomo resisteva, praticamente intatto,
quasi a voler confortare la popolazione di tutto il mondo che aveva assistito a
quell'orribile catastrofe. I corpi dei morti erano stati rimossi, così come
buona parte delle macerie. Non sapeva dove fosse il Vogue né che fine avesse
fatto il professor Jadid. Non le importava. Teneva fra le mani un oggetto
freddo e metallico, a forma di sfera. La sua superficie liscia era interrotta
da un unico bottoncino verde. Totalmente inutile dato che non era riuscito a
fermare la fatale macchina. Esaminando meglio ciò che aveva in mano, però,
Giulia scoprì un'altra intaccatura. Era una minuscola rientranza dalla forma
esagonale. Tirò fuori dalla tasca la moneta che un uomo vestito di nero le
aveva donato mesi prima. La inserì nel solco che si rivelò pronto ad ospitarla.
Poi premette il pulsante, sicura che questa volta avrebbe funzionato. Ma non
accadde nulla, non c'era più niente da distruggere. Giulia cominciò a ridere
istericamente ascoltando l'eco della propria voce che risuonava nella piazza
vuota.
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