giovedì 4 maggio 2017



LO SCHERMO   di Nicole Lanzi

Lo schermo si accese. C'era una pagina, bianca, pulita. Poi una penna si avvicinò. Le urlai contro  ma lei non mi ascoltò e dalla sua punta cadde una goccia d'inchiostro che rotolò sulla superficie ora non più perfetta. Si fece strada correndo sempre più veloce finché non apparvero dei riflessi più chiari sul nero più assoluto e la goccia divenne rossa. La telecamera sembrò allontanarsi allora e vidi che la pagina era in realtà un corpo e la goccia maledetta, sangue che ormai aveva creato una rete incancellabile di fili rossi sulla pelle pallida. Ad un tratto cadde un'enorme scaglia di ghiaccio che trafisse il cuore del corpo senza nome. La telecamera allora si allontanò di nuovo e quel terrificante pezzo di ghiaccio si rivelò solo una punta di un fiocco di neve. Il canale cambiò. Non so come, io non avevo toccato nulla... Mostrò il  nero, il buio che piano piano divenne un grigiastro ombroso fino a mostrare qualche punto di luce.  Si intravedevano delle figure ma i contorni erano sfuocati. Dopo qualche secondo la definizione migliorò e riuscii a distinguere le immagini. C'era una stanza, bianca, piena di mobili bianchi: due letti bianchi e tre armadi bianchi. C'era anche un tavolo, piccolo, squadrato, bianco con sopra un macchinario pieno di tubi, anch'esso bianco. Solo i cavetti non erano bianchi, ma erano di un grigio brutto e opaco. La porta, anch'essa bianca si spalancò ed entrarono due persone con il camice che immaginai fossero dottori. Stavano parlottando tra loro a bassa voce anche se non capii il perché visto che erano soli nella stanza. Bisbigliavano mentre mettevano sul tavolo delle sacche e vi inserivano un liquido trasparente. Provai ad alzare il volume ma non trovavo il telecomando. Mi concentrai allora sul loro linguaggio del corpo. L'uomo era anziano, con la barba corta e i baffi folti ormai tendenti al grigio. La statura bassa e robusta rivelava una dieta poco solida. Somigliava un po' alle immagini di Babbo Natale che vedevo anni fa. I suoi gesti però non erano quelli di un fabbricatore di giocattoli per bambini buoni. Era nervoso, si capiva dalle mani che non avevano mai smesso si muoversi come animate da una forza incontrollabile. E il suo viso sarebbe stato gentile e rasserenante se non avesse avuto una smorfia come di irritazione e fastidio che gli teneva occupati labbra e sopracciglia. La donna era invece più calma. Doveva avere circa cinquant'anni ma li portava con molta eleganza. Aveva i capelli biondo chiaro raccolti dietro il capo ed era più alta del collega. Il suo viso era gentile e piacevole sebbene dalla postura un po' rigida capii che anche lei doveva essere leggermente a disagio. Una volta finito di riempire le sacche si avvicinarono allo schermo e la donna scomparve. Dopo qualche secondo rientrò in scena, questa volta a mani vuote e si incamminarono entrambi verso la porta. Prima di uscire guardarono per un secondo la telecamera e io pensai a quanto incapaci siano gli attori di oggi, vanitosi e incompetenti. La porta si chiuse piano, come furtivamente ma ancor prima che toccasse lo stipite lo schermo si fece a macchie e poi di nuovo il fiocco di neve.

Uno zoom. Tutto era azzurro, con qualche macchia grigia qua e là. L'azzurro  si mosse, come se fosse stato su una giostra. Al centro c'era un pallino nero. La telecamera zoomò di nuovo e il pallino era in realtà una donna, tutta vestita di scuro, con gli occhi aperti, spalancati, spenti. Sembrava che fissasse un punto lontano, ormai svanito.  I suoi lineamenti mi erano familiari, forse era un'attrice famosa, ma non riuscivo a ricordarne il nome. Era  seduta su una sedia a dondolo e teneva sulle ginocchia un libro di favole con la faccia di una rana. D'un tratto la rana andò in primo piano e guardò davanti a sé con espressione quasi crudele. Aprì la bocca, piegata in un sorriso inquietante e ne uscì una mano piccola e paffuta, come quella di un bambino, con le unghie però lunghe come artigli e dei graffi sulle nocche. La mano si mosse lenta, come in una danza e si avvicinò allo schermo. In un istante l'immagine cambiò, e tornò la stanza bianca.  Tutto era uguale a prima. Identico, se non fosse stato per una macchia marrone che spuntava dalla cornice a destra. La definizione aumentò, come se qualcuno avesse focalizzato la lente su quel particolare, che si rivelò poi essere un ciuffo di capelli castani. Nulla si muoveva. Forse avevo schiacciato per sbaglio il tasto “Pausa” o forse semplicemente la persona a cui appartenevano quei capelli si era addormentata durante le riprese e si erano dimenticati di tagliare. Fatto sta che rimasi a fissare quella stessa immagine per quella che sembrò un'ora, anche se avrebbero potuto essere anche venti minuti a causa della mancanza di orari sul televisore. Entrò poi, finalmente, la signora di prima. Questa volta

in mano aveva un quaderno che guardava con concentrazione. Non appena chiuse la porta il ciuffo a destra si mosse, alzandosi di scatto. La testa della signora si girò verso quel punto e disse qualcosa che supposi essere delle scuse verso l'altra persona. Quest'ultima entrò in scena completamente e si scoprì essere una donna anziana, con i capelli che, a parte quel ciuffo ingannatore, si stavano già ingrigendo. Era di spalle, ma si vedeva il fisico minuto e smagrito. Le due iniziarono a parlare. Sembravano tristi. Forse la vecchia era una paziente e la dottoressa le doveva comunicare una brutta notizia. Ad un certo punto aprì il quaderno e ne tirò fuori un foglio sul quale si mise ad indicare dei punti. Non ingrandivano le scritte quindi non sapevo di cosa si trattasse ma di certo nulla di buono. L'anziana signora sembrava così sconsolata. Questo canale era veramente deprimente. Mi misi a cercare il telecomando ma non riuscivo a vederlo con il buio. Tastai a destra e a sinistra ma non trovai nulla. Dopo dieci minuti sprecati, mi rassegnai e tornai a posare lo sguardo sulla televisione. La dottoressa se n'era andata e nella stanza ora c'era solo la signora. Era ancora di spalle, con la testa china, la schiena ingobbita, come se avesse un peso enorme e non trovasse la forza di alzarsi. Piano piano si girò, come a rallentatore. Per prima spuntò la pelle rugosa e pallida, poi a poco a poco riuscì a vedere anche il naso, piccolo e schiacciato e la bocca sottile. Per ultimi vidi gli occhi, ma furono quelli a colpirmi. Erano grandi come due noci e scuri come una notte nuvolosa. In essi, se osservati attentamente, si poteva scorgere il dolore, tanto dolore, e un sacco di rimpianti. La donna guardò fisso verso la telecamera e con straziante pena, iniziò a piangere, come se volesse essere sicura che gli spettatori non distogliessero lo sguardo. Non era però un pianto rumoroso e forte, era uno di quei pianti silenziosi, amari, il peggiore. Mi faceva sentire strano, avevo come un malessere fisico che mi attorcigliava lo stomaco. Non mi piaceva. Provai a chiudere gli occhi, per estraniarmi da quell'orrore, e forse qualcuno spiava i miei pensieri perché quando li riaprii sullo schermo non c'era più il dolore. C'era invece una foglia. Una foglia piccola e leggiadra, verde chiaro, che cadeva da un cielo senza nubi. Una mano si alzò a prenderla, grande, veloce. Quasi un giaguaro che agguanta una farfalla. La strinse forte, come se fosse un collo da strozzare e in quelle tenaglie, la frantumò. Da essa scivolarono briciole verdognole, secche e morte ormai. Mi rendevo conto che la foglia, non essendo più attaccata all'albero, era comunque morta, ma quelle briciole sembravano davvero le viscere di un cadavere. La mano prese ciò che le era rimasto e se lo portò alla bocca. Alcuni pezzi rimasero incastrati nei lunghi baffi che tremavano ad ogni movimento della mandibola.  Poi, come a causa di un buco nero, tutto venne inghiottito da un cerchio. Al suo interno iniziarono a comparire dei segni: numeri e lettere. “A= Πr2 “, “P=F/S”, “A1*V1=A2*V2”...Odiavo quei canali da genietti. Le persone guardano la televisione per rilassarsi, non per studiare una qualche strana materia. Stavo quasi per abbandonarmi al sonno, quando dalle formule iniziarono a cadere delle gocce di sangue, che ben presto di trasformarono in veri e propri getti. Dal fondo sbucarono dei fiori pieni di crepe e buchi che ondeggiavano a destra e a sinistra, come nati dall'acido. La telecamera zoomò su uno di essi. Era di un giallo pallido, pelle di un malato terminale. I petali sulla punte si ingrigivano e il polline sembrava sabbia. Un'ape si avvicinò e si posò al centro del bocciolo. La sua lunga antenna penetrò all'interno e iniziò a risucchiare tutto. Come un parassita che sfrutta il corpo di un altro, sfinendolo. Vedevo il fiore che, se possibile, diveniva ancora più malandato. Era triste. Come assistere ad uno stupro. D'un tratto dall'antenna dell'insetto sbucò un libro, con la copertina nera, insignificante si direbbe, che aprendosi mostrò il bianco più assoluto. Uno di quei bianchi che non si trovano nemmeno sfregando forte e con tanto detersivo. Fu a quel punto che il canale cambiò.

Questa volta c'era solo il vecchio signore dall'aria nervosa che avevo visto prima. Sembrava ancora più nervoso, si guardava continuamente intorno come se sperasse che qualcuno venisse a salvarlo. Era strano pensare che un uomo adulto, anziano quasi, avesse paura di una stanza vuota. Avevo già visto quell'atteggiamento, nei film horror per lo più, e man mano che il signore si muoveva, mi convincevo sempre di più che ci fosse qualcosa di terribile, celato agli occhi degli spettatori. Prese delle sacche e le portò fuori dalla scena, poi ricomparve e andò a sinistra, verso un macchinario che si intravedeva. Iniziò a digitare dei numeri e nonostante il volume fosse ancora bassissimo riuscii a sentire dei suoni acuti che lo strumento sconosciuto emetteva.  Poi prese una cartella dal tavolo e vi 


scrisse qualcosa. Mentre teneva ancora la penna in mano, la porta si aprì ed entrarono le due signore insieme ad una ragazza. La dottoressa apriva la fila e aveva sul viso un'espressione di pietà e compassione. Dietro di lei l'anziana signora si teneva ad una ragazza. Quest'ultima guardò subito verso la telecamera e io, seduto sul divano, sentii come una scossa. Era bellissima, triste e sciupata ma bellissima. Aveva i capelli neri e mossi che le scivolavano sulle spalle e le circondavano la schiena. Il fisico era alto ma snello, tonico. Aveva la pelle pallida ma nonostante da essa trasparisse un senso di stanchezza, si vedeva da lontano che era perfetta. Gli occhi erano di un caldo marrone che brillava di sconforto. Non sapevo perché mi avesse colpito così tanto quell'attrice, forse avevo visto altri suoi film...Ma non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso. Sembrava che mi stesse guardando, oltre la televisione. Rimasi incantato così e solo dopo molto tempo mi accorsi che si erano tutti avvicinati. Lei ora teneva il capo chino e una lacrima le solcava una guancia. Avrei voluto piangere anche io ma mi sentivo come bloccato. Il signore disse qualcosa, visibilmente meno agitato e la dottoressa annuì come a sostegno. L'angelo abbracciò la signora, che si era come ripiegata su se stessa quasi in agonia. Teneva il viso dall'altra parte e non capii se stesse parlando ma  immaginai di si perché dopo qualche istante i due dottori si mossero quasi all'unisono, avvicinandosi ancora. Lui andò verso la macchina di prima e premette qualche pulsante. Rimase a guardarlo per qualche minuto mentre lei annotava qualcosa. Si guardarono e si fecero un cenno. Poi lei disse qualcosa che mi arrivò anche se molto piano, qualcosa come :” finita”. L'anziana lanciò un urlo, sempre attaccata alla fanciulla. Questa la strinse ancora più forte e sapevo che non si poteva “sentire” attraverso uno schermo ma io la sentii davvero quella stretta disperata. I dottori erano a disagio anche se si capiva che erano abituati, sapevano cosa fare, così andarono verso le personificazioni della sofferenza e, toccando loro le spalle, le guidarono fuori dalla stanza. Solo la donna bionda si voltò, gli altri scapparono fuori come se ci fosse un incendio. Lei guardò a sinistra, poi guardò a destra,  in basso verso il pavimento e verso il soffitto. Poi si convinse finalmente e guardò fisso nella telecamera, come quei saluti verso il pubblico che fanno gli attori teatrali quando finiscono l'opera. Percepii una sorta di rammarico e di rassegnazione nel suo sguardo e la sua bocca si piegò in un sorriso triste. La  porta si chiuse e rimasi a fissare una stanza vuota, come prima. Solo che questa volta c'era qualcosa di diverso, come un'atmosfera cupa. Dopo qualche minuto iniziò a scurirsi tutto e apparvero tante sfumature di grigio, bianco e nero. Ero quasi contento, immaginando che il canale stesse cambiando per sintonizzarsi su qualcosa di meno deprimente. Tutto divenne nero e io aspettai, e aspettai, e aspettai, ancora e ancora, ma l'immagine non cambiò. Il televisore non si riaccese più.

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