PER EMMA
Di NICOLE LUCENTI
Il suono irritante della sveglia e i raggi di sole che
entravano dalla finestra mi dicono che è ora di svegliarmi, quindi mi alzo
pigramente dal letto e mi vesto con le prime cose che trovo come al solito. In
cucina trovo la tavola mezza apparecchiata, con una tazza di thè ed un post-it
“sono al lavoro, un bacio. Mamma”. Tutte le volte trovo incredibile la forza
con cui cerca di rendere piacevole la giornata anche dopo che tutta la normalità si capovolge travolgendo la casa
come una tempesta. Esco lasciando tutto
com’era e mi avvio verso il centro in sella alla mia bicicletta. Il suono del
campanello davanti alla porta, il profumo di libri e un caloroso Buongiorno di
Clara, la mia libraia di fiducia, mi danno il benvenuto nel negozio. Clara è
una ragazza sulla trentina, un po’ tarchiata, lavora in quel posto da molti
anni e ci tiene molto a ciò che fa: le mensole sono sempre lucidare, i libri al
loro posto, il bancone sgombro e poi invoglierebbe chiunque a comprare (tant’è
che non esco mai a mani vuote). Pur curandolo, dal legno consumato del
pavimento, si riconoscono i segni della vecchiaia dell’edificio e ciò gli
conferisce qualcosa di magico. Inevitabilmente esco con un nuovo romanzo, dopo
aver chiacchierato per un po’ con lei. Quindi torno a casa, mi sdraio sul mio
adorato letto e inizio a leggere il nuovo acquisto.
Sento bussare alla porta e ritorno alla realtà dopo essermi
persa nel racconto; quanto sarà passato?
Un’ora? Due?
Con la testa ancora nel mio mondo vado ad aprire. Un brivido
mi percorre la schiena, doveva essere sparito per sempre dalla mia vita, ma me
lo ritrovo davanti. Ci guardiamo,
nessuno dei due azzarda dire una parola. Prima che possa fare qualsiasi cosa
gli sbatto la porta in faccia. Chiudo gli occhi cercando di trovare una
soluzione per farlo andare via ma riesco solo a rivederlo nella mia mente. Un
normale diciottenne, alto, capelli neri lunghi, fianchi snelli in jeans
consumati, maglietta da rocker e ciglia come quelle di una ragazza; una statua
davanti alla porta. “Cosa vuoi?” glielo dico in modo frustrato come se fosse
una cosa di tutti i giorni, senza sentimento. “Sono passati due anni ormai…
forse” “Vai via” gli rispondo con un filo di voce.
Era già passato un po’, lui se ne era andato da casa mia ma
non dalla mia testa. Ricordo la telefonata dell’ospedale, il volto terrorizzato
di mia madre davanti alle porte del pronto soccorso, lo sguardo distaccato e
colpevole di chi ha visto tutto ma non avrebbe voluto farlo. Una sola frase “Mi
dispiace”.
Inizia a rimbombare tra le pareti del mio cervello mentre
appare davanti a me la figura di una lapide e della piccola fotografia
attaccata ad essa. Un volto allegro, con
qualche lentiggine qua e là ed una folta
chioma rossa.
Una lacrima bagna il mio volto. Forse non mi ero ancora resa
conto di quanto mi manchi veramente mia sorella. Quasi automaticamente tiro
fuori una scatola azzurra da sotto il letto, la apro e ne osservo le foto al
suo interno.
Prima immagine:
eravamo piccolissime, posso ricordamene solo per il racconto di nostra madre.
Eravamo al mare, intente a litigarci i giochi come tutti i bambini di
quell’età. Avendo un solo anno di differenza eravamo molto rivali.
Seconda immagine: qui eravamo più grandi, in posa davanti
alla sua torta di compleanno. Da quel periodo in poi i litigi tra noi
diventavano sempre più rari ed aumentava la nostra complicità.
Tra le varie foto trovo anche un foglio piegato in quattro.
Lo apro e trovo un disegno fatto da lei,
l’immagine di un gatto stilizzato ed una dedica “Per Emma”.
Sopraffatta dalle emozioni sistemo tutto con ordine, ed esco
per riprendermi. Ordino un caffè al tavolo del solito bar, mentre cerco sulla
gazzetta un ipotetico lavoro per l’estate, così da poter guadagnare qualcosa
per conto mio. Con il caffè mi arriva anche un post-it. Il cameriere dice che “è
da parte di quel ragazzo al bancone”. Mi guardo intorno e subito lo rivedo.
Ancora lui. Mi sta fissando con un’espressione da cane bastonato. Leggo il
messaggio. Come prevedevo mi chiede di dargli la possibilità di parlami.
Estraggo una penna dalla borsa “domani. Stesso posto, stessa ora”. Lascio il
biglietto sul tavolo e vado.
Spero di chiarire tutto questo il prima possibile, ma allo
stesso tempo vorrei scappare e non farmi trovare all’appuntamento. Forse per la
paura di sapere come diavolo sia potuta succedere una cosa del genere, forse mi
basta sapere che è stato “un incidente” e rimanere nella mia ignoranza. Boh.
Così succede. L’indomani ci ritroviamo nello solito locale.
Mi chiede se voglio qualcosa, offre lui. Faccio segno di no con il viso. Inizia a parlare. “Eravamo a casa mia,
stavamo facendo gli idioti. Un’ora dopo saremmo dovuti andare in discoteca con
gli altri. La sua spazzola per i capelli è volata sul tetto, fuori dalla
finestra”. Riprende. “ Le ho detto che ci sarei andato io a riprenderla, ma non
ha voluto ascoltarmi. È bastato che mettesse male il piede per farla cadere”. Come
se io non conoscessi già cos’era accaduto, come se fossi una spettatrice del
suo teatrino. Solo una cosa non mi era
ancora chiara, perché se ne era andato lasciandola lì da sola, senza
soccorrerla. Tutte quelle parole senza la risposta alla mia domanda sembravamo
solamente sciocchezze. Glielo chiedo. “Ero terrorizzato. Mi sentivo in colpa.
Non avrei mai dovuto lasciarla andare. Non sapevo cosa fare” (chiamare un
soccorso magari?) “così iniziai a correre fino alla riva del fiume dietro casa;
quando gli altri ragazzi (quelli con cui avremmo passato la serata) sono
riusciti a trovarmi”. “Michael sei un idiota. Potevi salvarla. Ci sarebbe
potuta essere una briciola di speranza in più”. Sembrava di essere all’interno
di una bolla. Il bar, i rumori, la gente; spariti. Lui smette di parlare. Non
ha più niente da dire. Neanche io. Probabilmente aspetta che io gli risponda ma,
in fondo, cosa posso dire? Lo dovrei
scusare? Assolutamente no. E se anche fosse, per cosa?
La bolla scoppia ed esco dal locale senza una parola, poi
rimango ferma a contemplare il nulla davanti ai piedi di un enorme albero al
centro del parco. Michael mi raggiunge di corsa. “Non pretendo che tu possa
perdonarmi, ma almeno proviamo a tornare alla normalità. Eravamo amici una
volta, questo almeno te lo ricordi?”. La normalità. Non so cosa significhi
ormai quella parola. Sì, eravamo amici, quello era vero.
Io, Clarissa e Michael sotto a quello stesso albero, dieci
anni prima, passando i pomeriggi a raccontarci storie eroiche di mondi
fantastici.
All’improvviso, senza che i miei muscoli lo decidessero,
senza che io lo volessi (forse) lo abbraccio. Come a dire che non si può
cambiare il passato ma si può migliorare il presente, che dobbiamo andare
avanti.
In fondo tutto ciò che accade nella nostra vita, è per farci
imparare qualcosa anche se all’apparenza non è chiaro. Ancora non è chiaro neanche a me, eppure un motivo ci
sarà.
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