venerdì 5 maggio 2017



PER EMMA
Di NICOLE LUCENTI
Il suono irritante della sveglia e i raggi di sole che entravano dalla finestra mi dicono che è ora di svegliarmi, quindi mi alzo pigramente dal letto e mi vesto con le prime cose che trovo come al solito. In cucina trovo la tavola mezza apparecchiata, con una tazza di thè ed un post-it “sono al lavoro, un bacio. Mamma”. Tutte le volte trovo incredibile la forza con cui cerca di rendere piacevole la giornata anche dopo che tutta la  normalità si capovolge travolgendo la casa come una tempesta. Esco  lasciando tutto com’era e mi avvio verso il centro in sella alla mia bicicletta. Il suono del campanello davanti alla porta, il profumo di libri e un caloroso Buongiorno di Clara, la mia libraia di fiducia, mi danno il benvenuto nel negozio. Clara è una ragazza sulla trentina, un po’ tarchiata, lavora in quel posto da molti anni e ci tiene molto a ciò che fa: le mensole sono sempre lucidare, i libri al loro posto, il bancone sgombro e poi invoglierebbe chiunque a comprare (tant’è che non esco mai a mani vuote). Pur curandolo, dal legno consumato del pavimento, si riconoscono i segni della vecchiaia dell’edificio e ciò gli conferisce qualcosa di magico. Inevitabilmente esco con un nuovo romanzo, dopo aver chiacchierato per un po’ con lei. Quindi torno a casa, mi sdraio sul mio adorato letto e inizio a leggere il nuovo acquisto.

Sento bussare alla porta e ritorno alla realtà dopo essermi persa nel racconto;  quanto sarà passato? Un’ora? Due?
Con la testa ancora nel mio mondo vado ad aprire. Un brivido mi percorre la schiena, doveva essere sparito per sempre dalla mia vita, ma me lo ritrovo  davanti. Ci guardiamo, nessuno dei due azzarda dire una parola. Prima che possa fare qualsiasi cosa gli sbatto la porta in faccia. Chiudo gli occhi cercando di trovare una soluzione per farlo andare via ma riesco solo a rivederlo nella mia mente. Un normale diciottenne, alto, capelli neri lunghi, fianchi snelli in jeans consumati, maglietta da rocker e ciglia come quelle di una ragazza; una statua davanti alla porta. “Cosa vuoi?” glielo dico in modo frustrato come se fosse una cosa di tutti i giorni, senza sentimento. “Sono passati due anni ormai… forse” “Vai via” gli rispondo con un filo di voce.

Era già passato un po’, lui se ne era andato da casa mia ma non dalla mia testa. Ricordo la telefonata dell’ospedale, il volto terrorizzato di mia madre davanti alle porte del pronto soccorso, lo sguardo distaccato e colpevole di chi ha visto tutto ma non avrebbe voluto farlo. Una sola frase “Mi dispiace”.
Inizia a rimbombare tra le pareti del mio cervello mentre appare davanti a me la figura di una lapide e della piccola fotografia attaccata  ad essa. Un volto allegro, con qualche lentiggine qua  e là ed una folta chioma rossa.
Una lacrima bagna il mio volto. Forse non mi ero ancora resa conto di quanto mi manchi veramente mia sorella. Quasi automaticamente tiro fuori una scatola azzurra da sotto il letto, la apro e ne osservo le foto al suo interno.
 Prima immagine: eravamo piccolissime, posso ricordamene solo per il racconto di nostra madre. Eravamo al mare, intente a litigarci i giochi come tutti i bambini di quell’età. Avendo un solo anno di differenza eravamo molto rivali.
Seconda immagine: qui eravamo più grandi, in posa davanti alla sua torta di compleanno. Da quel periodo in poi i litigi tra noi diventavano sempre più rari ed aumentava la nostra complicità.
Tra le varie foto trovo anche un foglio piegato in quattro. Lo apro e trovo un disegno fatto  da lei, l’immagine di un gatto stilizzato ed una dedica “Per Emma”.
Sopraffatta dalle emozioni sistemo tutto con ordine, ed esco per riprendermi. Ordino un caffè al tavolo del solito bar, mentre cerco sulla gazzetta un ipotetico lavoro per l’estate, così da poter guadagnare qualcosa per conto mio. Con il caffè mi arriva anche un post-it. Il cameriere dice che “è da parte di quel ragazzo al bancone”. Mi guardo intorno e subito lo rivedo. Ancora lui. Mi sta fissando con un’espressione da cane bastonato. Leggo il messaggio. Come prevedevo mi chiede di dargli la possibilità di parlami. Estraggo una penna dalla borsa “domani. Stesso posto, stessa ora”. Lascio il biglietto sul tavolo e vado.
Spero di chiarire tutto questo il prima possibile, ma allo stesso tempo vorrei scappare e non farmi trovare all’appuntamento. Forse per la paura di sapere come diavolo sia potuta succedere una cosa del genere, forse mi basta sapere che è stato “un incidente” e rimanere nella mia ignoranza. Boh.
Così succede. L’indomani ci ritroviamo nello solito locale. Mi chiede se voglio qualcosa, offre lui. Faccio segno di no con il viso.  Inizia a parlare. “Eravamo a casa mia, stavamo facendo gli idioti. Un’ora dopo saremmo dovuti andare in discoteca con gli altri. La sua spazzola per i capelli è volata sul tetto, fuori dalla finestra”. Riprende. “ Le ho detto che ci sarei andato io a riprenderla, ma non ha voluto ascoltarmi. È bastato che mettesse male il piede per farla cadere”. Come se io non conoscessi già cos’era accaduto, come se fossi una spettatrice del suo teatrino. Solo una cosa non mi era ancora chiara, perché se ne era andato lasciandola lì da sola, senza soccorrerla. Tutte quelle parole senza la risposta alla mia domanda sembravamo solamente sciocchezze. Glielo chiedo. “Ero terrorizzato. Mi sentivo in colpa. Non avrei mai dovuto lasciarla andare. Non sapevo cosa fare” (chiamare un soccorso magari?) “così iniziai a correre fino alla riva del fiume dietro casa; quando gli altri ragazzi (quelli con cui avremmo passato la serata) sono riusciti a trovarmi”. “Michael sei un idiota. Potevi salvarla. Ci sarebbe potuta essere una briciola di speranza in più”. Sembrava di essere all’interno di una bolla. Il bar, i rumori, la gente; spariti. Lui smette di parlare. Non ha più niente da dire. Neanche io. Probabilmente aspetta che io gli risponda ma, in fondo, cosa posso  dire? Lo dovrei scusare? Assolutamente no. E se anche fosse, per cosa?
La bolla scoppia ed esco dal locale senza una parola, poi rimango ferma a contemplare il nulla davanti ai piedi di un enorme albero al centro del parco. Michael mi raggiunge di corsa. “Non pretendo che tu possa perdonarmi, ma almeno proviamo a tornare alla normalità. Eravamo amici una volta, questo almeno te lo ricordi?”. La normalità. Non so cosa significhi ormai quella parola. Sì, eravamo amici, quello era vero.
Io, Clarissa e Michael sotto a quello stesso albero, dieci anni prima, passando i pomeriggi a raccontarci storie eroiche di mondi fantastici.
All’improvviso, senza che i miei muscoli lo decidessero, senza che io lo volessi (forse) lo abbraccio. Come a dire che non si può cambiare il passato ma si può migliorare il presente, che dobbiamo andare avanti.
In fondo tutto ciò che accade nella nostra vita, è per farci imparare qualcosa anche se all’apparenza non è chiaro. Ancora non  è chiaro neanche a me, eppure un motivo ci sarà.

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